Peppuccio, un’appartenenza non negoziabile

Settimana scorsa se ne è andato un tipo strano, un uomo eternamente ragazzo, strappato alla 'ndrangheta calabrese. La sua appartenenza a un prete e ai suoi amici. GIUSEPPE FRANGI

Settimana scorsa se ne è andato un amico strano. Un amico un po’ folle, amico con tanti amici. Un uomo eternamente ragazzo, un po’ senza tempo con quei suoi ragionamenti a volte stralunati, a volte di imprevista lucidità. Il suo nome era quasi come una targa, che ne dichiarava la provenienza: Giuseppe Barbaro, detto Peppuccio, da Platì. Era arrivato a Roma a metà degli anni 70, poco più che adolescente. Ce lo aveva portato don Giacomo Tantardini, perché la mamma lo aveva implorato di fare così per evitare che finisse nelle mani maligne della ‘ndrangheta. C’è una foto di quegli anni, scattata durante una vacanza a Corvara, in cui lo si vede con quel suo sguardo che sembra strappato da un mondo primitivo. Uno sguardo tutto stupito, come di un ragazzo che vedesse per la prima volta il mondo. Erano gli anni, anzi i mesi in cui Pier Paolo Pasolini scriveva le sue lettere a Gennariello (raccolte in Lettere luterane). E Peppuccio era un po’ Gennariello, un ragazzo sulla soglia di un mondo sconosciuto in cui avrebbe perso tutte le coordinate di appartenenza. Ma a Peppuccio le cose sono andate diversamente.

Viveva di poco e dell’aiuto di molti. Peppuccio era un semplice anche se gli piaceva avventurarsi in teoremi complessi. Aveva una vera e propria malattia per la politica, che viveva non certo sentendosi spettatore ma ritenendosi a pieno titolo dentro i giochi. Era democristiano nell’anima, con un senso di appartenenza allo scudo crociato che neanche i rovesci storici avevano potuto scalfire. Avesse potuto scegliere dove vivere, avrebbe piantato una tenda a piazza del Gesù. Per Peppuccio la Dc era una dimensione antropologica. Ai tempi d’oro respirava l’aria del palazzo della Dc, sapeva chi saliva e chi scendeva. Come quei bidelli che a scuola ti dicono quale prof è bravo e quale meno. Non sbagliava mai. Il suo rapporto con la politica era totale. Era democristiano, perché quella politica magari impresentabile, magari pasticciona aveva una natura popolare e aperta, che poi sarebbe tristemente andata perduta. Ci sono mille aneddoti che costellano la vita parlamentare di Peppuccio, capace di strappare confidenze a qualunque leader e di finire regolarmente sotto le telecamere dei tg. Aneddoti divertenti con interlocutori interdetti che non capivano se lui c’era o se lui ci faceva. Lui, più semplicemente, c’era e ci faceva: intelligenza, furbizia e paranoie si mixavano senza apparenti dissociazioni.

Ma tutto questo fa un po’ parte del folklore di Peppuccio. Invece è più bello e più giusto raccontare qualcos’altro di lui: cioè l’affezione, la fedeltà silenziosa, l’attaccamento senza se e senza ma, che negli anni è rimasto sempre quello del primo sguardo della fotografia degli anni 70. L’appartenenza per lui era un qualcosa di istintivo, di “non negoziabile”. Come fosse un ramo che non si può neanche concepire senza il tronco a cui è attaccato: e il tronco era una persona, don Giacomo, e la storia che per grazia ne era scaturita. Lo vedevi silenzioso partecipare a tutti i momenti della comunità. Percepivi in lui una gratitudine che non aveva bisogno di parole per dirsi.

Ci si deve infine chiedere perché Peppuccio abbia attraversato e segnato la vita di tanti. Perché ci venisse autorevolmente chiesto di volergli bene e di aiutarlo. Si può provare a rispondere. Peppuccio, come mi suggerisce Alessandro Banfi, grande amico suo, è stata per tutti un’esperienza educativa. Ridimensionava il nostro “io”, costringeva ad uno sguardo ironico rispetto a quello che siamo e che facciamo. Ti riportava ad una dimensione di povertà. Per questo Peppuccio un giorno è stato strappato alla Calabria, non solo per liberarlo dalla ‘ndrangheta…

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