La vicenda dei sette professori universitari di importanti atenei italiani messi agli arresti domiciliari con l’accusa di aver truccato i concorsi, ha riaperto la vecchia tiritera sull’università nostrana: tutta corrotta, ammalata di nepotismo come una corte rinascimentale, promotrice di concorsi farlocchi, mediocre nel suo lavoro, didattico e di ricerca. Per suffragare questa tesi si tirano in ballo statistiche internazionali in cui i nostri atenei non compaiono agli apici. Piccolo particolare, si tratta di studi realizzati da istituti tutt’altro che autorevoli, che scelgono indici spesso cervellotici o non trasparenti.
Per riportarsi alla realtà, il brain drain, cioè la fuga dei cervelli, che oggi riguarda ben il 9% dei laureati italiani, dimostra quanto invece siano giovani ben preparati, al punto da occupare posti apicali nelle università, nei centri di ricerca e nelle imprese straniere. Come fanno a ottenere questi posti se gli atenei da cui provengono sono mediocri? Piuttosto, perché non ci si chiede il motivo per cui i sistemi produttivi stranieri li pagano in media – dati Alma Laurea – 7-800 euro al mese in più, con forte variabilità legata al merito, e offrano loro contratti molto più stabili? Per togliere ogni dubbio sul valore delle università italiane, se si considerano i risultati nella ricerca in rapporto all’investimento economico, i nostri ricercatori sono i migliori del mondo.
Ma veniamo al casus belli di questi giorni. Quanto avvenuto – la denuncia di un ricercatore di Firenze che ha subìto pressioni perché ritirasse la sua candidatura all’abilitazione e le indagini avviate per corruzione – deve obbligare a riflettere sull'”elefante nella stanza” del problema: l’assetto statalista e centralista del sistema universitario.
I migliori atenei del mondo, pubblici e privati, competono per assicurarsi i fondi per mantenersi. Sono vere e proprie aziende profit, non profit o pubbliche, che devono vincere assegni di ricerca (grant) per pagarsi, non solo il lavoro di ricerca, ma anche il personale amministrativo; finanziano la didattica con le alte tasse degli studenti, compensate da altissime borse di studio per i meno abbienti; si assicurano donazioni esentasse da benefattori che sostengono la loro missione; in alcuni casi con attività extracurriculari completano il bilancio.
In Italia, la paura di sottomettere la cultura alle logiche del mercato impedisce di avvantaggiarsi di quanto il mercato può offrire e si finanziano dal centro gli atenei tenendo in conto solo in una minima percentuale la loro qualità, permettendo quindi che permangano accanto a strutture di qualità, strutture di bassa qualità, università locali improponibili per economia di scala, persino università telematiche di dubbio valore.
Mentre l’elaborazione di un nuovo modello langue a livello centrale, ci pensano gli studenti a mandare segnali forti e chiari, trasferendosi in massa verso le università migliori, come quelle milanesi ad esempio. Un sistema competitivo obbligherebbe alla chiusura o all’accorpamento gli atenei così spopolati. Dominando il centralismo, invece, nulla accade.
Cosa c’entra questo con i concorsi? C’entra perché nessuna università – come si vede bene all’estero – che deve competere per mantenersi sceglierebbe un mediocre raccomandato, come nessun club calcistico fa giocare un centroavanti che non segna solo perché è il figlio del presidente. Si può fare a meno dei concorsi pubblici e scegliere i migliori sulla base della semplice cooptazione. L’accesso ai dottorati all’estero avviene sulla base di due lettere di raccomandazione e del curriculum, e a livello locale, gli assegni di ricerca (postdoc) e la conferma in ruolo a tempo indeterminato (tenure-track) vengono dati sulla base di risultati rigorosamente valutati. Nessuno si sogna di selezionare se non i migliori, che vengono pagati con stipendi differenziati sulla base del suo valore e delle possibilità dell’università. E i controlli nazionali? Non mancano per gli ordinari di prestigiosi istituzioni, ma sono seri momenti di valutazione. Ad esempio, al National Institutes of Health (NIH) di Washington periodicamente una commissione nazionale di professori di chiara fama internazionale dedicano due giorni di colloquio con l’ordinario sotto esame sulla base di due ponderose relazioni, una sulla strategia, i grant vinti nella ricerca, e l’altra sugli articoli pubblicati. Non si rinuncia quindi a una valutazione seria, che è altra cosa però da quello difeso dalle vestali dello statalismo obsoleto italiano. In conclusione, quando si capirà che per superare il clientelismo, anche in ambito universitario, non c’è altra strada che una sussidiarietà basata sul merito che superi il centralismo burocratico?