Mise sotto-sopra il mondo con un pugno di storie: quasi banali, quotidiane, alla portata dei cervelli che, nel suo peregrinare, Gli chiedevano lumi sul Cielo e sui suoi misteriosi intrecci. Quanti — tra tutti coloro che ebbero grazia di udirle in diretta — Gli diedero retta, ebbero chiara la percezione che quell’Uomo Nazareno aveva raccontato delle storie perché, tenendole cucite assieme, apparisse loro quale fisionomia avesse il Regno dei Cieli. Altri non vollero capirle, affari loro: non fu per difetto d’udito bensì per coraggio difettoso, cioè per paura. La paura più arcana, quella che atterrisce gli umani, pancia a terra: dover ammettere che quelle storielle narrano di me, dicono dell’uomo. Storie odiosissime per Satana perché mortali per lui: “Incomincio a capire che vi possa essere gente cui torni piacevole che Gesù sia un fantasma (…) Per un segreto inconfessato desiderio di non ritrovarselo vicino, neanche sulla strada del passato” (P. Mazzolari).
Le storie di Cristo, per accendersi, hanno sempre bisogno di un padre. Per svilupparsi, poi, hanno urgenza che questo padre abbia almeno-almeno messo al mondo due figli. Nei Vangeli non ci può essere gioia se non c’è alternanza: possibilità d’andare, di restare, di rincasare. Figli allevati alla stessa scuola, che nell’età adulta imboccano strade in opposizione. E’ l’età nella quale papà pare essere un padre-padrone. Dio-padrone: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna“. Che vada in malora il mondo: di un padre così “non ne ho voglia“. Tutt’al più, il trucco per farlo stare buono esiste. Un padre amico-del-figlio è sempre garanzia di comodità: “‘Sì, signore’. Ma non vi andò“.
Capita che il primo — mascalzone, maledetto, buffone, disobbediente — poi ci ripensi: “Si pentì e vi andò“. L’altro, il bambino tutto educato, mica si pente: è ancora convinto che basti aver tirato su la facciata per avere l’abitabilità della sua casa. Della sua fede. I suoi fan mica capiscono che, tolti i peccatori-disobbedienti, i Vangeli si sbriciolano, son carta straccia, un pugno di sabbia. Sempre così, come nei film d’interpretazione: per riuscire ad interpretare in maniera sublime un grande santo, occorre la coscienza d’esser stati altrettanto grandi peccatori. Mai arresi. E’ la più bella eresia di chi dà retta al Cristo. Ogni tanto occorre sbatterGli la porta in faccia per ritrovare la magia della sua affettuosa presenza: “Non ci vado: non m’interessi più”. Conta fino a tre, tanto poi: “Scusa, papà, ci ho ripensato. Vado”.
E’ un gran narratore Cristo: siccome conosce a menadito l’uomo — per trent’anni ha fatto pure Lui il figlio, s’è vestito da garzone di bottega, ha discusso seduto a tavola, ha chiesto lumi sulla sorte del mondo —, allora spiazza il lettore. A fine parabola — “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?” — confonde le carte in tavola, prendendo per il bavero il cuore e mettendo cuore-lettore spalle al muro: “Parlo di me e di te da soli, hai capito?” Pazzesco: non c’erano due figli nella storia, c’erano i miei due modi di rispondere a Papà. Ero sempre io, lo stesso soggetto: nelle stagioni in cui a casa si sta bene, nelle sere in cui a casa il clima con papà sembra essere diventato irrespirabile. Un solo Padre, tanti modi d’essergli figlio.
Con Dio, due cuori e una capanna. In uno dei due, quello mio, stanno in affitto altri due cuori: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro”. Dico-sì tanto poi non vado. Dico-no però poi ci ripenso, io ci vado a lavorare con papà: “Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa” (C.M. Martini). Così vanno sempre a finire le storie inventate di sana pianta da Cristo, traendo ispirazione dagli sguardi che Lo incrociano: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,28-32). La prima fila sbattuta in ultima, l’ultima portata sul palco. E’ promemoria di come ragioni Dio: tanto per non confondersi.