Il primo libro che ho pubblicato – dieci anni fa – raccontava la storia di Russia Cristiana e del suo fondatore padre Romano Scalfi. Mi aveva mosso all’impresa la gratitudine per aver potuto collaborare per qualche anno a quell’opera e il desiderio che non se ne perdesse in futuro la memoria, volevo conservarne – sintetizzata e documentata nelle pagine di un libro – la storia.
Ricordo che allora, quando dicevo che stavo scrivendo la biografia di padre Scalfi, molti mi guardavano stupiti e commentavano imbarazzati: “Non sapevo che fosse morto”. Io li tranquillizzavo che il coriaceo sacerdote trentino, pur avendo superato gli ottant’anni, era ancora arzillo e al lavoro e rivendicavo il diritto e l’utilità di scrivere la biografia di un vivente.
Com’è noto, padre Scalfi, lo scorso giorno di Natale, è morto. Dopo qualche settimana l’editore mi ha chiesto di scrivere un ultimo breve capitolo per poter ripubblicare il libro di dieci anni fa in veste aggiornata. Ho accettato con entusiasmo, perché in tutto questo lasso di tempo avevo mantenuto i rapporti con padre Scalfi e avevo continuato, seppur più limitatamente, a dare una mano a Russia Cristiana.
Ma quando ho messo mano alla tastiera l’enorme differenza mi è balzata agli occhi: ora il prete trentino innamorato della Russia, l’acuto divulgatore del samizdat, l’attore di un ecumenismo fatto anzitutto di rapporti umani, il sacerdote che celebrava la liturgia bizantina con una sobria dignità realmente sacra, l’amico sempre pronto al dialogo, è davvero morto. Che valore ha, mi sono chiesto, scriverne ora la storia? Domanda resa più inquietante dal ricordo di una frase di Charles Péguy; è la Storia stessa che parla e parla esattamente di se stessa: “Sono una povera vecchia donna senza eternità: meno di niente; uno straccio, un vecchio resto di donna. Orgogliosa, e vuota, di tanto passato e per quello che dico, sono dunque senza (alcun) avvenire”. A che pro, dunque, rivolgersi ad un passato irrimediabilmente passato.
Dopo che Wozzeck, il soldato protagonista dell’opera di Alban Berg, ha ucciso la propria donna ai bordi di uno stagno, dice una sola parola: “Morta” (atto III, scena II). Allora l’orchestra si ferma e dapprima pianissimo e poi crescendo potentemente esegue tutta insieme un’unica nota; il fragore termina con due colpi di timpano: la pietra tombale sul cadavere di Marie. Ma poi l’orchestra riprende ancora la stessa nota all’unisono e arriva ad una massa di suono ancora più imponente di prima; che però precipita nella volgare musichetta di una taverna piena di soldataglia e prostitute: la morte ha vinto e non c’è tanto da star lì a pensarci sopra, divertiamoci intanto che possiamo.
Io credo però che ci sia anche un’altra possibilità: se, come annuncia il cristianesimo, l’eternità (quella che manca alla vecchia Storia) è entrata nel tempo della storia, allora in ogni vita umana se ne possono cercare e seguire i segni. Scrivere la biografia di un uomo che ha creduto alla storicità dell’eterno non è solo mettere rigorosamente in ordine i dati e i fatti di una cronologia (che precipiterebbe nell’accordo tombale del Wozzeck), ma è anche e soprattutto ritrovare nella trama temporale di quella vita i lampi, le stranezze umanamente incomprensibili, i punti di vista al di là del buonsenso comune che dimostrano la presenza irriducibilmente “altra” dell’eternità. Sono loro che garantiscono a quella storia – ben al di là di tutti gli accorgimenti umani messi in atto per proseguirla – il suo imprevedibile avvenire.