NEW YORK — “Per natura siamo portati all’unità e desideriamo essere parte di una vera comunità: la vita fiorisce quando è condivisa. Eppure viviamo in un’epoca di frammentazione. A livello sociale soffriamo profonde divisioni tra popoli e religioni e il nostro paese è sempre più polarizzato su schieramenti ideologici che corrodono l’unità. (…) Alla fin fine l’unità che desideriamo sembra impossibile. Ma se invece fosse possibile?”
Sono parole dello statement di apertura del New York Encounter 2018, “An ‘Impossible Unity” (Una Unità Impossibile), che va a cominciare questo venerdì al Metropolitan Pavilion: 125 West 18th Street – in caso foste in giro per Manhattan. Sono l’invito, la provocazione e la promessa di un possibile cammino e di un cammino possibile. Come and see, venite a vedere, venite a viverlo questo NY Encounter #10. Sono già dieci anni che continuiamo a portare guerra e pace nel cuore di New York City.
Una sfida, una battaglia nel cuore della città che sta nel cuore del mondo, ma anzitutto e soprattutto una battaglia che si combatte nel cuore nostro. Perché è nel cuore mio che questo desiderio, questo bisogno di una “impossibile unità” grida forte la sua domanda lottando per non sbriciolarsi in mille schegge fatte di distrazione, chiacchiere vane a suon di social media, immagini di ciò che dovremmo essere secondo il mondo e tante altre cose che ci lasciano sempre l’amaro in bocca. E quando quella frammentazione soffoca la domanda restano solo l’antagonismo cattivo e l’ostilità ideologica a scuoterci dal torpore del niente.
Dieci anni di New York Encounter. Pochi e tanti. Noi che abbiamo cominciato questa avventura ragazzini non siamo, ed in verità non lo eravamo neppure dieci anni fa. Però abbiamo imparato da giovani a rischiare quel che si è e quel che si ha, con ingenua baldanza, sbattendo la testa contro i limiti propri ed altrui, ma sempre in letizia. Fatica e letizia. Dieci anni fa le cose erano meglio o peggio? Bella domanda.
Se guardo noi, il popolo dell’Encounter – le centinaia di volontari di ogni età e provenienza che arrivano ogni anno sempre più numerosi e le migliaia che si sono avvicinati all’Encounter con curiosità e desiderio vivendo queste giornate con il cuore, la mente, gli occhi e le orecchie spalancati – tutti noi potremmo cantare con Bob Dylan, oggi più che mai, “Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now” – ero molto più vecchio allora, adesso sono più giovane. Sì, perché l’età è come il lavoro: pesa quando manca di significato. Allora tutti noi che abbiamo lavorato per far accadere un altro Encounter, tutti noi che ci adopereremo in questi giorni perché tutto sia bello e vero, speriamo di rivivere ancora una volta il miracolo di un “nuovo inizio” – scoprire che il tempo non uccide ma fa crescere, scoprire che il decimo Encounter è più vivo, bello e stringente del primo. Offriamo il nostro lavoro per tutto il mondo, affinché quelli che per qualsiasi ragione capiteranno tra noi, per visitare una mostra, sentire un relatore, assistere ad uno spettacolo o anche solo mangiare un boccone al caldo possano trovare una ragione di speranza, un motivo fatto di carne e sangue per riaprirsi alle domande più grandi. Che sono quelle che fanno più male, quelle che facciamo più fatica ad affrontare da soli, quelle che fanno la vita più bella. Come è capitato a noi.
Per questo da dieci anni facciamo l’Encounter.