Elezioni, scegliere con il cuore

Le prossime elezioni politiche ripropongono uno scenario mortificante, dove invece di proporre qualcosa di costruttivo si pensa solo a distruggere. GIORGIO VITTADINI

Al triste scenario di una ripresa ancora troppo effimera, si aggiunge l’ancora più triste spettacolo dei candidati alle prossime elezioni che fanno a gara a chi promette di cancellare più leggi, senza proporre niente di costruttivo, senza precisare cosa si vorrebbe creare, quali soluzioni ai problemi si immaginano.

Ma una volta chiarito che molto probabilmente quello che ci si dovrà aspettare è ancora un periodo di instabilità, bisognerà pur decidere di muovere un piede dopo l’altro, fissare delle priorità per andare avanti, cominciare a delineare di cosa è fatto un bene comune. Il privilegio di chi pontifica e arzigogola su un disastro presente o futuro, senza impiegare mai del tempo a capire da dove ricominciare, ci sta costando troppo caro.

C’è una figura istituzionale, quella del presidente della Repubblica, che rappresentando l’unità nazionale, ha il compito di richiamare proprio questo principio elementare: si può sempre ricominciare a costruire la casa comune.

Gli ultimi presidenti hanno tracciato una linea rossa in tal senso che vale la pena richiamare. Il presidente Napolitano, che nell’ultima parte del suo primo mandato, quando la guerra tra bande della politica italiana stava assumendo le sue note più fosche, ha esortato a non smettere di costruire l’Italia dal basso ricercando il bene comune. Intervenendo al Meeting di Rimini 2013, ha parlato del “coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno. Dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo”. Un impegno che non può venire solo dallo Stato, ma è “espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà” che ha permesso “una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso”.

Tale appello si ripeté in modo diverso in occasione della sua rielezione. Era un altro momento drammatico. Il Porcellum aveva portato a una situazione di stallo totale perché non c’era alcun accordo su quale presidente eleggere e a quale governo dare vita. Il presidente Napolitano accettò il reincarico affermando la necessità di un lavoro comune per il rinnovamento istituzionale del paese, in un clima di reciproco rispetto: “Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora – nella fase cruciale che l’Italia e l’Europa attraversano – il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle soluzioni”.

Successivamente riuscì a formare un governo di unità nazionale che affidò al premier Enrico Letta e da qui si riavviò il cammino del paese.

Il nuovo presidente Mattarella, che sembrava eletto in una prospettiva divisiva si è mosso in direzione simile, come si è visto al Meeting di Rimini 2016, dove ha detto: “Il noi è anche la storia. Il noi è la democrazia. Andare oltre l’io vuol dire realizzarsi in maniera autentica anche come singoli. Vuol dire anche superare il limite del qui e ora, perché il futuro si costruisce soltanto insieme. A volte sembra persino impossibile pensare oltre il contingente. La discussione pubblica, compresa quella politica, è spesso dominata dal presente. Passare dall’io al noi ci permette di guardare più lontano”.

E, nel suo recente discorso di fine anno, dopo aver sottolineato la necessità di votare, ha affermato che questo “noi” è già per molti una realtà: “Conosco un Paese diverso, in larga misura generoso e solidale. Ho incontrato tante persone, orgogliose di compiere il proprio dovere e di aiutare chi ha bisogno. Donne e uomini che, giorno dopo giorno, affrontano, con tenacia e con coraggio, le difficoltà della vita e cercano di superarle”.

Cosa insegna quindi la politica dei presidenti, qualunque sia l’opzione politica che abbiamo e il partito che vogliamo sostenere?

Innanzitutto che la politica e l’assetto di una nazione non possono essere concepiti come se si fosse nel Messico della rivoluzione del 1917 dove qualunque banda arrivasse faceva fuori le bande nemiche. Chi diventa leader deve esserlo per tutti, apprezzare e valorizzare le opposizioni e smetterla di voler rottamare non il vecchio ma il diverso da sé. Chi diventa leader deve pensare che le cariche politiche chiedono serietà e competenza, non solo nella gestione della comunicazione, ma sopratutto nell’affrontare problemi che sono per forza complessi e richiedono compromessi. Non si può governare con cinguettii di twitter, comparsate televisive, feste da Satyricon, collaboratori servili ma incapaci.

C’è un altro importante aspetto: un cammino comune nella gestione della cosa pubblica non nasce dall’alto, ma è frutto di un impegno convergente di persone che si legano tra loro per la passione di costruire sviluppo economico e sociale. Non ci si può limitare ad analisi macro-economiche che scommettono sull’ineluttabilità del declino, come se nulla potesse cambiare la libertà, la forza ideale, la giusta ambizione delle persone.

Siamo ancora padroni del nostro destino se ci innestiamo in questo flusso comune positivo e, come si è visto negli ultimi 25 anni, chi si sottrae a questa lettura della realtà non ha proprio nulla da dirci e darci qualunque sia la sua età, vecchio o giovane che sia, perché non usa il cuore. Proprio il cuore è un buon criterio per scegliere, fuori da logiche populiste, distruttive o che ripropongono un passato recente ma già pieno di fallimenti.

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