Non è mai finita. Ieri la notizia, da Pomigliano d’Arco, di dieci minorenni armati di catene che aggrediscono due ragazzini, uno di 14 l’altro di 15 anni. Due degli aggressori sono stati fermati: 15 e 13 anni. Perché l’hanno fatto? Boh. Due giorni prima, scena simile alla periferia nord di Napoli: dieci minorenni pestano un coetaneo, Gaetano, di 15 anni. Milza spappolata. Perché l’hanno fatto? Boh. Sotto Natale, sempre a Napoli, questa volta in centro, era toccato ad Arturo, 17 anni: miracolosamente sopravvissuto a 20 coltellate di una baby gang. E a Verona, il senzatetto bruciato vivo nella vecchia auto dove dormiva? “Era per fare uno scherzo”, dicono i due bulli di 17 e 13 anni. Sul treno Lucca-Pisa che attraversa la storica quirinalizia tenuta di San Rossore, il 16 dicembre, un gruppo di minorenni ha malmenato una ragazza e il capotreno e anche aggredito dei poliziotti. Andando indietro, ma non di molto nel tempo (luglio 2017), a Bari una dodicenne stuprata per mesi da cinque ragazzini fra i 13 e i 17 anni. In Sardegna, a Domusnovas, un anziano di 81 anni è stato pestato da un ragazzino di 13. Anche qui senza motivo.

L’elenco potrebbe essere assai più lungo risalendo sino a Erika e Omar, i fidanzatini di Novi Ligure che nel 2001 assassinarono madre e fratellino di lei. Ma basta così.

Tutti siamo colpiti dalla giovanissima età dei protagonisti, dallo scatenamento del “branco”, dall’aggressività irrazionale (spessissimo manca un motivo) e irresponsabile (manca la percezione della colpa). Mi viene da chiedermi, come tutti, come una tale prepotenza dell’io sia possibile, come si possa arrivare a tanto. Non mi ha mai soddisfatto la parola “devianza”. La questione mi pare essere: dove e come comincia la deviazione, se così vogliamo chiamarla.

Mi affiora, sul filo di questi pensieri, il ricordo di un piccolo episodio — normale — di cui sono stato testimone diretto, che in apparenza c’entra poco o niente ma che invece per me è molto significativo perché mi suggerisce che non di prepotenza dell’io innanzitutto si tratti, ma della sua inconsistenza, o della sua assenza.

Salone-bar dell’oratorio. Venticinque-trenta ragazzini, età 9-10 anni. Con un po’ di pazienza i catechisti ottengono la fine del gioco e dello schiamazzo, e un po’ d’ordine prima di salire in cappellina per la preghiera e poi nelle aulette per la lezioncina. A un certo punto uno lancia un gridolino, così, senza un perché. Uno allora gli fa eco e si lancia verso le scale. In una frazione di secondo il gruppo è un’orda urlante e selvaggiamente galoppante sulle povere scale, inarrestabile come una mandria di bisonti nella prateria, fin dentro la povera cappellina. Intendiamoci, non hanno fatto niente di che, roba quasi normale, anche se ovviamente il comportamento e da correggere decisamente e… pazientemente. Ma lì mi è sembrato di vedere il branco in nuce: non un esercito di spietati io-guerrieri in nuce, ma una stampede, corsa forsennata di una mandria impazzita di non-io, ciecamente e irresponsabilmente al seguito del (provvisorio) leader negativo, come si usa dire, che sarebbe nella fattispecie il primo che ha fatto il pisquano.

Chi ne sa molto più di me, per studio o per esperienza, sarebbe in grado di descrivere per bene i meccanismi dell’emulazione, dell’attrattività del negativo, della logica del potere di chi sottomette gli altri e di chi al prepotente si sottomette; saprebbe anche chiarire il nesso tra l’offuscamento della demarcazione tra virtuale e reale, così facile oggi, e comportamenti irrazionali e irresponsabili. E poi le dinamiche familiari. E poi i genitori sindacalisti del figlio. E poi le condizioni socio-economiche, e poi, e poi… Tutti fattori importanti e meritevoli di attenta considerazione, perché possono essere precondizione del bullismo di gruppo.

Andando all’osso, nella piccola stampede d’oratorio, ho riletto, come dicevo, la fragilità dell’io fino alla sua (momentanea, per fortuna) nullificazione e intravisto la debolezza o la mancanza del “padre”. Padre è quello che inoltra il figlio nella realtà, facendogli scoprire la sua consistenza e positività. In mancanza, la realtà rimane qualcosa da cui essere protetti (mamma o papino) o in cui si può giocare (come in un videogame). Senza padre (parlo della figura, naturalmente, non di singole fattispecie) non c’è autorità nel senso di auctoritas, ciò che fa crescere la persona. La quale non si auto-costituisce ma nasce o rinasce da un incontro vivo, come ha insistentemente insegnato e testimoniato mons. Luigi Giussani. Senza auctoritas il leader negativo ha gioco facile.

Il libro Contro i papà di Antonio Polito, uscito qualche anno fa, descrive in maniera attenta e godibile questo fenomeno. Lo connette a filoni dominanti del pensiero del ‘900, sino al ’68 quando “siamo stati la prima generazione che ha disobbedito ai padri e obbedito ai figli”. Con le rivoluzioni del ’68 e del ’77, argomenta dal canto suo lo psicanalista Massimo Recalcati, è finito Edipo: doveva uccidere il padre e l’ha fatto. I figli si sono ribellati al padre. Ora è l’epoca di Narciso, figlio del comfort e uomo dello specchio: non c’è più differenza tra genitori e figli.

I ragazzini di oggi, non sono però direttamente figli del ’68 & dintorni, ma nipotini: sono i figli della generazione Cernobyl, per richiamare un’acuta lettura che ne fece nel 1987 mons. Luigi Giussani, intendendo indicare con quella metafora derivata dall’incidente nucleare un influsso devastante del potere, un “plagio fisiologico operato dalla mentalità dominante… che rende astratti nel rapporto con se stessi, affettivamente scarichi” fino a cercare rifugio e protezione nel gruppo. Per Giussani il tema è la nascita o la rinascita dell’io. Egli indica il fattore decisivo in un “incontro vivo”, perciò autorevole, che fa accorgere delle proprie esigenze profonde e della positività ultima della realtà, e che mette in moto adeguatamente ragione e affettività, capacità di giudizio e senso di responsabilità (si veda il volume intitolato appunto L’io rinasce in un incontro, Rizzoli 2010).

Sempre Recalcati propone una terza figura emblematica: quella di Telemaco, figlio di Ulisse che non ha mai conosciuto il padre ma che lo attende sentendolo non come un ostacolo a sé da uccidere, ma come un bene per la verità e la giustizia propria, della propria casa e della propria terra. Telemaco dunque scruta vigile il mare sino a tutto il giro dell’orizzonte. Attendendo l’incontro decisivo. Ecco, credo si debba combattere Narciso e tifare Telemaco.