L’ultima proposta porta la firma di Nicola Rossi: economista, ex senatore Pd, già presidente del think tank Bruno Leoni. La sua flat tax è un pacchetto in quattro punti: un’aliquota unica al 25% per l’Irpef e per l’imposta sul reddito delle imprese (dall’attuale 28%); abolizione di Imu, Irap, Tasi; introduzione di un “reddito minimo vitale” a favore dei nuclei familiari in difficoltà, con differenziazioni geografiche; ridefinizione del finanziamento di alcuni servizi pubblici, che resterebbero gratuiti per la maggior parte dei cittadini e diverrebbero a pagamento per le fasce più abbienti. Rossi per primo è consapevole che la sua proposta è destinata a subire prevedibili attacchi su entrambi i fianchi. Non piacerà affatto ai difensori a oltranza di una redistribuzione fiscale pesante e progressiva: ci vedranno un taglio delle tasse puro e semplice, sinonimo di “regalo ai ricchi” finanziato dalla cancellazioni simmetriche della spesa sociale. Ma difficilmente saranno con Rossi i tanti neo-trumpiani d’Italia: per i quali “flat tax” non può che essere sinonimo di taglio tout court, non di rimodulazione politico-economica delle entrate e delle uscite della finanza pubblica.
“Meno tasse per tutti” è stato il grido di battaglia del primo Silvio Berlusconi e perfino Massimo D’Alema – primo e finora unico inquilino ex comunista di Palazzo Chigi – polemizzava con il ministro Tommaso Padoa-Schioppa nel secondo governo Prodi quando definiva “bellissime” le tasse. In campagna elettorale c’è sempre poco spazio per le sottigliezze in materia fiscale: per di più se il voto italiano del 2018 è fissato al termine di un quinquennio in cui la pressione tributaria media è stata sempre superiore al 43%, mentre il Pil tentava di recuperare una recessione del 10 per cento.
Lo stesso contesto internazionale sembra soffiare nelle vele sia per gli economisti sia per i tribuni elettorali: dalla riforma tributaria di Donald Trump al faticoso rilancio della grosse koalition in Germania, i grandi governi del pianeta guardano a un allentamento dell’austerity, a stimoli fiscali che accelerino la ripresa. In ultima istanza: tutti vogliono “tagliare le tasse”, dando il cambio alla terapia d’emergenza dell’espansionismo monetario e lasciando indietro al secolo scorso le politiche keynesiane di spesa pubblica in deficit. Ma a chi e come “tagliare le tasse”?
Il centrosinistra al governo – stretto fra recessione e austerità Ue – due tentativi li ha compiuti. Il primo è stato il bonus di 80 euro alle famiglie e ha meritato a Matteo Renzi, premier da 100 giorni, una netta affermazione elettorale alle europee 2014. Ma oggi è tutto dimenticato: quasi inesistente l’effetto di politica economica (anche a livello di semplice ricostruzione della fiducia nei consumatori) ed effimero il successo elettorale. Diverso è stato il caso di “Industria 4.0” (in parte preceduto dal “bonus mobili” virato anche sulla politica per la famiglia). L’imposizione è stata alleggerita alle imprese, in settori di punta del Made in Italy come design e meccatronica, con due obiettivi precisi: sollecitare investimenti industriali in innovazione e competitività globale e aprire spazi occupazionali per giovani italiani con diversi gradi advanced education, tecnico professionale o universitaria. Il boom di ordini 2017 di macchine utensili (+45%) ha già quantificato la risposta del settore manifatturiero italiano. Oltre Atlantico giganti come Apple o Amazon hanno atteso un maxi-condono fiscale sui profitti parcheggiati all’estero per annunciare investimenti e piani di assunzioni.
Non sorprende il consenso multi-partisan formatosi attorno a questa direzione del “taglio delle tasse”: almeno nell’orizzonte della prossima legislatura. Convince l’idea di orientare selettivamente l’incentivo fiscale ai produttori di futuro reddito reale, a imprenditori e lavoratori dell’economia della conoscenza e della creatività.