Tempo fa andai a Mantova per parlare a un teatro pieno zeppo di giovanissimi studenti di una scuola media pubblica sul tema della tecnologia e dei rapporti umani. Non avevo la minima idea di quale approccio avere per per parlarne in modo abbordabile, ma facendo ginnastica di primo mattino mi chiarii le idee.

Feci una premessa spiegando una notizia allora recentissima, cioè che dopo 65 anni di prove un programma di intelligenza artificiale aveva passato il famoso test di Turing. Il matematico inglese Alan Turing aveva inventato un test per capire se una machina poteva essere definita “intelligente” o meno. Dato che noi non riusciamo a dare una definizione precisa di cosa vuole dire “intelligenza”, Turing aveva proposto un test in cui delle persone, coscienti dello scopo del test, parlavano con un interlocutore attraverso un computer, sapendo che dall’altra parte ci poteva essere o un essere umano o un programma di informatica. Nel giugno 2014, presso la Royal Society di Londra, per la prima volta le persone scelte per participare al test non riuscivano a distinguere fra le risposte di una persona reale e un computer. Era la nascita formale della macchina intelligente.

Ciò detto, posi la domanda: alla luce di questo progresso nel rapporto fra uomo e macchina, volevo che mi dicessero cosa preferivano: una macchina capace di fare tutte le cose che fa una madre senza i malumori, i limiti, le debolezze o le arrabbiature  della mamma (cioè cucina conoscendo tutte le ricette che esistono, pulisce, parla, gioca, corregge, fa fare compiti) o la mamma stessa, così come è?

Tutti gli alunni dichiararono a gran voce la loro preferenza per la mamma. Io però insistetti perché difendessero questa scelta, perché mi dessero le motivazioni. “La mamma gioca con me!” disse uno. “Sì” risposi, “ma sappiamo dai videogiochi che una macchina è capace di fare giochi fantastici e non si stanca. La tua mamma non si stanca? Sì? E allora, meglio la macchina per il gioco, no?” “Ma ci vuole una persona vera!” gridarono. “Ma abbiamo già visto — dissi io — che ormai non si può più distinguere fra il dialogo con una macchina e quello con una persona. Per quanto sapresti tu, per quanto capiresti tu, la macchina sarebbe davvero un interlocutore vero, una persona vera.  Per di più senza ‘rompere’, senza perdere le staffe per nessun buon motivo, senza spazientirsi e accusarti di nulla. Senza respingerti quando tu la vuoi. La tua mamma non ti fa arrabbiare? Perché non preferire una macchina senza questi difetti?”

Il dialogo andò avanti con passione, ma io rispondevo sempre con esempi di come si poteva preferire la macchina, perché non fa soffrire. Ci fu silenzio per un po’ e io non feci nulla per interromperlo. “Però la mamma mi vuol bene” disse finalmente una ragazzina. “Cosa vuol dire?” le chiesi. E lei: “Vuole che io cresca. Vuole che io viva, anche se per questo è necessario che io soffra per imparare, per crescere. Lei vuole che anch’io sappia come amare, anche con sacrificio. Forse quando la mamma non è perfetta, anche questa mi aiuta a crescere”.

Aveva già passato l’ora e mezza di incontro, e nessuno voleva andarsene. Nemmeno io. Infatti, quell’incontro rimane con me. È quando non possiamo prendere per scontate le cose, che impariamo cosa sono davvero, chi sono davvero. E chi siamo noi.