C’è un buco narrativo di quasi trent’anni tra l’episodio dei Magi e quello del Battesimo di Gesù: in un solo giorno la liturgia della Chiesa sembra fare un salto logico senza senso. Eppure lo scopo dei Vangeli non è quello di raccontare una storia, bensì di testimoniare l’identità di un uomo che era risorto e in cui tanti adesso credevano. Già, ma qual è l’identità di Gesù? Perché un tema simile dovrebbe interessare la malinconia con cui si ritorna al lavoro, si mettono via gli addobbi o si cerca di rientrare “a bomba” nel bel mezzo della realtà?
La risposta è molto semplice: secondo l’interpretazione di molti padri preniceni, di coloro che hanno riflettuto sul mistero di Dio prima del Concilio di Nicea del 325, il Battesimo di Gesù è la festa dell’Unzione, ossia del momento in cui il Padre abilita il Figlio — in quanto uomo — a trasformare l’umanità. Al fiume Giordano insomma, con un’affermazione ai limiti dell’ortodossia, Ireneo di Lione e i suoi amici ci raccontano che Gesù è divenuto fisicamente in grado di salvarci. Da questo momento in poi tutto quello che entrerà in contatto con Lui potrà essere trasformato, reso veramente umano.
Egli è dunque il Salvatore, Colui che non permette che i desideri degli uomini si corrompano o cadano in rovina. Tante volte si ha un concetto di salvezza molto ristretto, riducendola a poco più di una fiaba: Dio che salva sarebbe assimilabile ad un moderno supereroe che porta l’uomo lontano dal male. La salvezza, al contrario, è l’esperienza di un desiderio che non decade e non si corrompe. Quante volte iniziamo ad amare e poi ci perdiamo, quante volte iniziamo a costruire qualcosa e poi mandiamo tutto a monte, quante volte vogliamo essere felici e poi un nonnulla ci ributta nella rabbia o nell’angoscia! Tutti abbiamo bisogno di Qualcuno che salvi l’umano, che salvi questa nostra passione per la vita che sembra sempre di più minacciata dalla confusione e dalla morte. Le più grandi violenze dei nostri tempi sono figlie di desideri impazziti, desideri tormentati o interrotti, desideri di cui non si è davvero preso cura nessuno. Il giorno del matrimonio, il primo giorno di lavoro, il giorno della nascita di un figlio, i nostri desideri sono chiari e nitidi, il tempo poi li inquina, li consuma, li spegne. È per questo che abbiamo bisogno della Salvezza.
Al fiume Giordano, trent’anni dopo che ci venne rivelato che quel bambino era il Cristo — l’inviato di Dio —, ci viene detto che quell’uomo è il Signore, Colui che è capace di trasformare — donando forza e speranza — tutto ciò che gli viene permesso di toccare. Così il nostro amore può ricominciare, il nostro impegno può rifiorire, la nostra amicizia o la nostra comunità possono ripartire, la nostra coscienza può riprendere il suo cammino. Tutto, insomma, diventa di nuovo possibile. Basta avere l’umiltà di praticare pausa e nutrire fiducia nel fatto che ogni cosa che permettiamo che affiori dentro di noi possa essere, se custodita nella preghiera, toccata e trasformata da Cristo.
Inizia così il tempo ordinario, il tempo delle cose ordinarie, e la provocazione diventa drammaticamente commovente: lasceremo ciò che desideriamo in balia di noi stessi o permetteremo a Cristo di sfiorarlo? Terremo tutto per noi, desiderosi di gestire e risolvere la vita in prima persona, o offriremo il dolore, la morte, il pianto, a Uno che li possa davvero cambiare in gioia? Su questo misterioso crinale si gioca la partita più importante, la sfida cominciata trent’anni dopo i Magi, al fiume Giordano. Una sfida che può decidere, fin da domani mattina, se far crescere la speranza o abbandonare tutto alla violenza, a volte cieca, dei nostri progetti. Sembra poco, ma — a ben vedere — questo è davvero tutto quello che ci serve per riprendere, per ritornare senza rimpianti al tempo di tutti i giorni, al tempo ordinario.