Giuro non lo faccio apposta, ma a leggere qualcosa di politica di questi tempi – giusto per cominciare a farmi un’idea, fra 55 giorni si vota – non riesco a non pensare ai carri “conestoga” attrezzati per la vendita di elisir che percorrevano la frontiera del far west. Sì, insomma — sia detto senza offesa — alla figura dell’imbonitore. Né medico né artista: egli è semmai un preteso guaritore con parlantina, abile in frasi ad effetto adatte a enfatizzare le portentose virtù risolutrici di mercanzie e intrugli che sono nel migliore dei casi inefficaci, ma il più delle volte nocivi. 

Il Kickapoo Sagwa era il più formidabile. Guariva da tutti i dolori. Tipo flat tax, che in un act fa sparire l’Iref e l’Irap. Costo: sui 53 miliardi all’anno. Roba da doc Berlusca. Già che ci siamo: via il bollo sulla prima auto. Sui tre miliardi, bollo più bollo meno. Il famoso Kickapoo Indian Cought Syrop, assicurano doc Salvini e doc Di Maio, cura la tosse indiana e fa sparire la legge Fornero. Costo qualcosina in meno: sui 17 miliardi di euro all’anno. A questo punto, per non essere da meno, doc Renzi propina un suo Kickapoo speciale che fa sparire il canone Rai. Pochi euri: 1,7 miliardi. Che la Rai beninteso continuerebbe a prendere, prelevando però non dalle tasche degli italiani con il canone, ma dalle tasche degli italiani con la fiscalità generale.

Sono tutte promesse di maggiori spese, ingenti, anzi insostenibili. E infatti nessuno degli imb…, pardon, dei proponenti, indica uno straccio di possibile sostenibilità. Il vecchio Achille Lauro, sindaco di Napoli e deputato monarchico, dopo essere stato nell’Uomo Qualunque (che era tipo M5s senza internet) faceva anch’egli promesse vantaggiose all’elettore: un paio di scarpe. Se non l’inventore, certo uno dei “grandi” del populismo, che oggi è vento in poppa per partiti e movimenti più o meno recenti in Italia e in Europa, ma che soffia forte, tenta e influenza anche forze politiche nate da altra tradizione, più o meno liberale o socialista. Comunque Lauro le promesse le sapeva mantenere: la scarpa sinistra consegnata in acconto prima del voto, la destra a saldo, dopo lo scrutinio.

Quelle di adesso sono invece promesse che non potranno essere mantenute. E’ un populismo che dà sfogo (ma non risposte) all’insoddisfazione e allo scontento di molti. Che da un lato soffia sul fuoco del rancore, dall’altro contribuisce ad aumentare ulteriormente la già forte disaffezione del popolo alla politica. Perché, come nel far west, i creduloni ci sono ma diminuiscono di numero man mano che constatano gli effetti nulli o nocivi dell’elisir. Là, prima che ciò accadesse, i conestoga abbandonavano la zona. Qui gli elettori abbandonano le urne.

Noi che non ci arrenderemo mai all’astensionismo, vorremmo molto modestamente dagli uomini della politica due cose semplicissime. Primo, che non ci contassero balle sulla situazione e, secondo, che ci esponessero proposte praticabili a fronte dei bisogni reali del Paese valorizzando le risorse umane e sociali intermedie che per fortuna non sono poche. Con il coraggio di dire che la politica è arte del possibile, non (pseudo)scienza del miracolo. Insomma: molto meglio una roba minima che un  kickapoo sagwa.

Ora, sappiamo che un po’ di ripresa in Italia c’è. Ma è fragile. Che il merito principale non è d’altri che della Banca centrale europea con i suoi mega-acquisti di debito pubblico a interessi di favore. Ma il debito pubblico spropositato resta, e se dovessimo pagare interessi più alti sarebbe un disastro. Gli indicatori di redditi e consumi, è vero, hanno segno positivo, sia pure solo di zero virgola, ma i benefici reali sono appannaggio di una minoranza. Il divario ricchi-poveri cresce. La differenza è che prima gli italiani avevano un pollo pro-capite, cioè due il ricco e niente il povero. Ora stanno meglio: un pollo e mezzo pro-capite, cioè tre per il ricco e sempre zero per il povero. Posti di lavoro se ne sono creati, ma è vistosa la persistente disoccupazione giovanile e  la diffusione dei lavori precari e sottopagati: vuol dire che per milioni di ragazzi non c’è un futuro degno, un vero ingresso nella vita adulta e generativa. Questa frattura generazionale tende a impedire che le risorse, non solo economiche, dei padri divengano un investimento di cui i figli possano appropriarsi (per riecheggiare il titolo dell’ultima edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli). Ne ha trattato con grande chiarezza Mauro Magatti sul Corriere della Sera del 4 gennaio, indicando la necessità di un “patto tra generazioni per il futuro dell’Italia”. E’ la chiave giusta per guardare lavoro, educazione, welfare, ricerca e innovazione, infrastrutture, ecc. 

E’ ora che  su questa sfida la politica dica qualcosa: qualcosa di sinistra (come invocava Nanni Moretti), o qualcosa di destra (perché come direbbe Gaber: “cos’è la destra? cos’è la sinistra?”). Ma che sia qualcosa, ecco, di serio: anche roba minima, ma non populista. Politici seri non mancano: l’auspicio è che i partiti (cioè i capi di quelle macchine da consenso e reddito che i partiti sono) non gli tolgano spazio e visibilità, preferendogli la quotidiana mediatica esibizione dei conestoga per la vendita di elisir.

Che se poi il popolo va a leggere, scopre che sinonimo di imbonitore, secondo i principali dizionari di italiano, è ciarlatano. La parola deriva palesemente da ciarlare. Oggi diremmo da talk show televisivo. Ciarlatani per antonomasia citati dalle enciclopedie sono per la Francia del ‘600 l’attore Tabarin e per l’Italia recente, si badi bene, Vanna Marchi.