Giorni fa un amico e collega giornalista, dotato di cuore buono e spirito umoristico, è stato coinvolto in un incidente stradale per fortuna leggero, in cui aveva ragione, ed è stato pestato, ahimè in maniera pesante, dall’automobilista che aveva torto marcio. Per via del cuore buono si è rivolto con gentilezza all’interlocutore. Per via dello spirito umoristico, al medesimo che agitava in aria un minaccioso e inequivocabile dito medio, ha domandato: “Oxford?”. L’amico-collega si è visto arrivare addosso un tram, che era il pugno dell’oxfordiano, ed è l’ultima cosa che ricorda. E’ rinvenuto in un ospedale, corpo leopardato di tumefazioni per le botte prese, zigomo fracassato e naso rotto e svirgolato, da mettere in dima per raddrizzarlo.

E’ vero, succedono cose ben più gravi di questa, ogni giorno. Però quando le cose brutte e ingiuste ti toccano così da vicino, ti feriscono di più, e sentimenti e pensieri sgorgano spontanei e appassionati.

Ne abbiamo parlato in un gruppo di amici giornalisti della vittima, che era presente e ci raccontava. Tutti di buona educazione, e nessuno di noi ha invocato la pena di morte, ci mancherebbe. I commenti erano tipo “gente da galera”, “cavoli, ma quanta rabbia sproporzionata ha dentro tanta gente”, “se ti capita un incidente, meglio lasciar perdere, non sai mai con chi hai a che fare”. Reazioni, moderate come si conviene a gente perbene, ma comunque dettate dall’impressione avuta dalla cosa; e da nient’altro di nuovo, di non banale.

Uno di noi ha introdotto infine un concetto che aveva pure scritto sul suo giornale parlando della violenta rapina di Lanciano, e cioè che tutti devono aver comunque una possibilità di espiazione.

Allora un altro ha suggerito che dare la possibilità di espiare suppone una concezione per cui la persona non è mai interamente riducibile al suo errore. E ha richiamato la testimonianza di un carcerato contenuta in una lettera scritta agli amici nel 2016. Riguarda il modo con cui ha reagito a una perquisizione corporale oggettivamente offensiva dell’umana dignità.

“Amici miei, ciò che mi ha permesso di stare davanti a questa prova è stato anche il vostro volto, il vostro bene. Mi sono detto: Ma se è vero ciò che hai condiviso con il gruppetto di amici (riuniti dall’impegno ad educarsi nella fede, nda), allora non deve esistere circostanza che possa rubarmi la cosa più importante che porto dentro di me, cioè lo sguardo lieto. Quindi in quell’istante ho abbracciato tutta quella realtà, anche se mi portava tristezza, non solo per me, ma soprattutto per loro che me l’avevano fatto. Ma ho capito che non è colpa loro. Che colpa ne ha uno se non ha fatto un incontro, se non ha avuto uno che gli vuole bene gratuitamente e di conseguenza gli insegna a voler bene, come fa senza una guida così?! Che colpa ne ha uno se non ha un testimone da seguire che gli fa capire cos’è l’uomo e soprattutto perché vale la pena vivere? Ho guardato loro con tenerezza, perché se uno nella vita è sempre stato trattato così, lui di conseguenza tratta nella stessa maniera chi incontra. A lui per prima è stata toccata la dignità e agisce di conseguenza con chi incontra!”.

Testimonianza commovente, addirittura eroica. Un santo. Da incorniciare.

Alt. Un momento. Qui c’è un rischio: appunto quello di incorniciare il santo carcerato in un quadretto edificante sopra il comodino, mentre sulla scrivania, tra le “vere” preoccupazioni quotidiane, teniamo la foto di cronaca dell’energumeno di Oxford. Fuor di metafora: va bene l’ideale, lassù; ma la realtà è un’altra, quaggiù. Invece… “era necessario che l’eroico diventasse quotidiano, e il quotidiano eroico” (Giovanni Paolo II commemorando San Benedetto: non un intimista, ma uno da cui è nata una civiltà). “Eroico” è la dimensione del rapporto con un Oltre, con l’Infinito. E’ l’irriducibilità della persona al potere.

Nella società di Babele (cioè del Potere in Confusione) qual è quella attuale, una strada è dunque quella “eroica”, quella di ripartire dalla persona, sull’esempio del carcerato, che tende all’abbraccio, all’unità, alla cooperazione per il bene comune.

L’altra è quella della tentazione biblica (riveduta e corretta): “Asfaltate il nemico e sarete come dei. Asfaltiamo i delinquenti. Asfaltiamo i clandestini. Asfaltiamo i politici, che rubano. Asfaltiamo quelli che comandavano prima. Asfaltiamo gli eurocrati, che non ci lasciano fare i debiti. Asfaltiamo i ragionieri, che ci remano contro con i loro numerini. Asfaltiamo i potenti e taaac, abolita la povertà. Asfaltiamo, asfaltiamo”.

Questo per dire che stiamo parlando anche di politica.

Parliamo di politica quando ricordiamo, con le parole di un grande educatore, che (solo) “il perdono fa venir voglia di fare il bene”. Qualcosa del genere fece anche Palmiro Togliatti, pensa un po’, quando, da ministro della Giustizia e da segretario del Pci, convenne con De Gasperi che non era bene procedere a un’inflessibile epurazione di funzionari, tecnici, professori, burocrati, magistrati che avevano prestato servizio negli anni del fascismo. Si evitò non solo la guerra civile ma, sicuramente, di buttare nel sacco dell’immondizia un immenso patrimonio di competenze utilissime per rimettere in piedi l’Italia.