L’indaffaratismo di Marta (e noi)

Papa Francesco ha coniato una nuova parola: "indaffaratismo". E' l'operosità distratta di Marta che ha preferito il lavoro alla contemplazione di Cristo. GIUSEPPE FRANGI

A Papa Francesco può capitare di inciampare camminando, com’è accaduto l’altro giorno. Ma certo non di inciampare sulle parole. Martedì, durante la messa mattutina a Santa Marta, ne ha coniata una tanto precisa ed efficace quanto complicata da pronunciare: “indaffaratismo”. Oggi ha detto siamo cultori e prigionieri della religione dell'”indaffaratismo”. Ovvero siamo persone sempre “indaffarate”, che hanno sempre da fare. Lo spunto veniva dal Vangelo di quel giorno, vale a dire la pagina di Luca dedicata a Marta e Maria. Nella casa in cui Gesù è ospitato, ha ricordato Francesco “c’era Maria, che ascoltava il Signore” mentre la sorella Marta “era occupata nei servizi, andava da una parte all’altra, ‘distolta’, come dice il Vangelo”. Marta era anche una donna risoluta e coraggiosa, tanto da farsi avanti per lamentarsi della sorella che non faceva nulla. Istintivamente siamo tutti dalla sua parte, anche perché ci sentiamo tutti nelle sue condizioni.



Sappiamo come andò a finire con Gesù, che gentilmente ma con risolutezza rimproverò Marta di agitarsi per molte cose senza dare tempo alla sola cosa di cui c’è bisogno. “Maria invece si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. E in cosa consisteva questa “parte migliore”? Risponde Francesco: “Perdere il tempo guardando il Signore”. Non che questo significhi bearsi in “un dolce far niente”. “Lei guardava il Signore perché il Signore toccava il cuore e da lì, dall’ispirazione del Signore, viene il lavoro che si deve svolgere dopo”. Dalla contemplazione scaturisce un’azione come servizio. Anche a guardare la storia di San Paolo ci si può sorprendere per una scelta analoga: appena convertito, invece di passare all’azione (com’era certamente nella sua natura) si era ritirato in Arabia, per “contemplare il mistero del Signore”. Ma questo non è tanto frutto di una decisione, dice il Papa, quanto di un innamoramento: “Paolo era un innamorato del Signore”.



A questo proposito, tornando a Marta e Maria, viene quasi automatico richiamare l’immagine di un meraviglioso quadro di Caravaggio conservato oggi in un museo americano. Si vede da una parte la sorella “indaffarata”, con i capelli un po’ scarmigliati e gli abiti da casa, che si rivolge alla “nullafacente” enumerando con le dita tutte le sue mancanze. Al centro della tela c’è una Maria dal piglio quasi regale, con i capelli elegantemente agghindati e una scollatura da brividi, che guarda con un’aria un po’ compatita Marta e il suo predicare affannoso. Il genio scapestrato di Caravaggio non lascia spazio a sfumature interpretative e fa capire che Maria non ha bisogno di difendersi, perché le sue ragioni stanno tutte in quel mazzolino di fiori d’arancio che tiene con delicatezza tra le dita: fiori che “parlano”, appunto, di un avvenuto innamoramento per il Signore.



Si può sempre obiettare che non ci si innamora a comando, e che se non ti tocca, alla fine la scelta di Marta resta una scelta pur sempre dignitosa. Ma il cristianesimo offre un’altra chance: quella di puntare lo sguardo verso chi ha il cuore acceso da questo amore. Il Signore è stato sempre generoso nel donare testimoni alla comunità degli uomini, persone che hanno “ricevuto in dono la contemplazione del Signore”: guardandoli e seguendoli si esce dalla gabbia dell'”indaffaratismo”.

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