Qualcosa si è inceppato lungo la linea che trasmette messaggi importanti, quelli che formano il sentimento della vita di una società. Non solo la comunicazione pubblica, ma quella elementare, da genitori a figli, da collega a collega, tra vicini di casa. Mi è apparso chiaro dialogando con un gruppo di giovani. Uno scambio vero, intenso, sincero, radicale, come quello che concedono solo persone che vivono situazioni-limite, quella di una comunità di recupero per tossicodipendenti. Persone che non hanno alcuna voglia di fare finta o di “farsela andare bene” e per questo riescono a esprimere meglio di altri il “fondo” del loro modo di essere, nel bene e nel male. Fondo che però alla fine, a ben vedere, è comune a tutti.

Va detto subito che i ragazzi della comunità “L’Imprevisto” di Pesaro sono fortunati. Oltre agli usuali strumenti quali il lavoro, lo studio, l’ausilio psicologico, il loro percorso prevede frequenti momenti di dialogo, anche comunitario, in cui sono guidati a usare il cuore e la ragione, a maturare la coscienza di sé, del loro percorso terapeutico e del loro cammino di essere umani.

Francesco mi ha detto: “dopo anni di ‘grandine’, che ha distrutto tutto e mi ha fatto sprofondare, ho cercato di ripartire e pensavo che ce l’avrei fatta senza l’aiuto di nessuno. All’inizio pensi che ce la devi fare da solo, valuti l’aiuto come una debolezza, e sei concentrato solo su chi te lo dà, non su quello che di bene ti vuole trasmettere”.

Sto ascoltando un ragazzo che sta uscendo da una dipendenza, ma la stessa riflessione potrei sentirla da un imprenditore che dopo aver perso tutto si rende conto che è vissuto nel mito dell’uomo “Denim”, quello che “non deve chiedere mai”. Come siamo riusciti a trasformarci in monadi isolate, dopo avere avuto una storia così significativa di ricostruzione post-bellica resa possibile da “maniche rimboccate”, ma soprattutto da mani che si sono “lavate” l’una con l’altra?

Lo vedo in tanti: piano piano l’isolamento indebolisce la capacità critica e questo rende ancora più fragili esistenzialmente. La restrizione degli spazi del rapporto destabilizza anche l’identità della persona. “Posso perdermi nelle tante cose da fare, ma ho bisogno che mi attendiate. Essere attesa vuol dire: io ci sono”, ha detto infatti Elisabetta. Non è così per tutti? Non è questa l’origine di tanta angoscia, non sentirsi aspettati?

Anche l’indebolimento della capacità critica è sotto gli occhi di tutti. Perché non basta sentirsi capiti nel proprio rancore, nella propria frustrazione, nella propria impotenza per andare avanti. Così, si riesce a far credere che risolvere problemi come povertà, migrazioni, sviluppo sia facile, che la logica del “bianco e nero”, dell’estrema semplificazione imposta dalle regole della comunicazione, sia alla fine quella che descrive meglio la realtà.

Come disse il professor Eddo Rigotti già nel lontano ’95: “L’insofferenza per l’elaborazione viene a ben vedere da un banale luogo retorico (nel senso deteriore del termine) che contrappone la genuinità all’elaborazione e identifica la naturalità con l’improvvisazione, la reattività con la sincerità. In altre parole la riflessione e il controllo sono confuse con la doppiezza. Questo ideale dell’idiota ruspante è l’ultimo esito del naturalismo, dopo che della natura si è perso totalmente il concetto”.

C’è un’altra premessa al sentire comune, contrabbandata come vera. E forse questo è l’aspetto più triste: che il desiderio che ci si porta nel profondo non è legittimo. Il problema è che a questi ragazzi, a tutti i ragazzi, non si dice solo – giustamente – che la droga (e qui possiamo metterci dentro tutti i tipi di dipendenze) distrugge e comunque non risponde al bisogno profondo che spinge a drogarsi. Si dice che questo bisogno va messo da parte. È illusorio.

Per questo mi è parso un miracolo quando Elisabetta mi ha detto: “Io mi porto dentro una brutta ferita da sempre, ma il problema è che le ho fatto fare una brutta fine, l’ho trattata male, l’ho lasciata imputridire. Ho bisogno di gridare che è la ferita della vita che mi fa male, che non la posso lasciare così”.

Quanti adulti dicono ai loro figlio adolescenti: il buco che senti dentro è segno della tua grandezza, si chiama desiderio? Non lo guarisci con la droga o con qualche altra illusione, ma guardandoti intorno, cercando chi vive più felice, chi vuole aspettarti e ti spinge a guardarti dentro, oltre il dolore. Come mi ha detto Allegra: “Mia sorella si è ammalata, ha sofferto tanto e poi è morta. Da lì ho iniziato a pensare che il mondo è una merda. Ho iniziato a sfogarmi in modi non belli. Ma il mondo non cadeva a pezzi, ero io che cadevo a pezzi. Qui ti insegnano a ricominciare, a ricostruirti una specie di casa con fondamenta più solide così che se arriva il terremoto tu non cadi”.

Se il desiderio non ha valore, non lo ha nemmeno alcuna spinta vitale, nessun contributo personale. Infatti i ragazzi non hanno percezione dei loro talenti, non sanno chi sono. Come conferma Silvio Cattarina, responsabile de “L’Imprevisto”: “Quello che tutti i ragazzi in comunità mi dicono, prima o poi, è che stando qui scoprono cose di se stessi che non pensavano di avere, possibilità, capacità, sentimenti. Il fatto che sono determinati da grande impaccio, chiusura, che sono esistenzialmente bloccati mi colpisce più della droga e di tante altre manifestazioni del malessere moderni. Non è timidezza, non è impossibilità, è incapacità, diseducazione, trascuratezza, povertà dell’anima”. 

Se il messaggio subliminale è che, alla fine, la vita è una minaccia, lo spettro del Colombre di Dino Buzzati è lì a incatenarti. O meglio, il pensiero della sua minaccia, che il padre del protagonista del racconto gli aveva messo in cuore. 

Cosa sta funzionando in questa comunità di recupero? Perché ha risultati così significativi? Anche la risposta a questa domanda offre un suggerimento utile a tutti: funziona perché ridà speranza. Come? Offrendo compagnia nel cercare il proprio percorso fatto di passi concreti, giorno dopo giorno. E anche questo può aiutare ad essere più critici perché, come ha scritto Alessandro D’Avenia in un bel pezzo apparso sul Corriere, “il futuro smette di aprirsi se non è conseguenza della cura di ciò che è già dato. Il futuro è fedeltà al presente, perché la vita non evolve a salti e rivoluzioni, ma a passi lenti e a spirale”.