Due o tre giorni fa, un post su Facebook che merita, perché racconta una bella esperienza. Eccolo.

“Mi è capitato in questi giorni di andare al Buzzi, l’ospedale dei bambini di Milano. Tanti piccoli, in carrozzina, nei letti, in sala giochi. Mamme con la faccia stanca, ma bellissime. Papà ansiosi. Nonne rassicuranti. Medici e infermieri gentilissimi, disponibili. Un ospedale che ti fa sentire sicuro. A colpo d’occhio e orecchiando da cronista, molti genitori provenienti da altre regioni e tanti, tanti bambini provenienti da altri Paesi, ma sicuramente abitanti a Milano. Nei corridoi s’incrociano tutti. Si accettano tutti. Si sorridono tutti. Tutti sulla stessa barca: curare il bambino, il proprio figlio. Ti sorridono anche le mamme con il velo, magari le stesse che sul metro non ti guardano. E le mamme italiane mostrano una super disponibilità con le mamme straniere, magari sul metro non le guardano nemmeno. I bambini-pazienti giocano insieme, certo come all’asilo e a scuola. E allora? direte voi. La sensazione forte è che tutti abbassano la guardia, saltano i pregiudizi, si volatizzano le tensioni. Sono tutte persone. Sono tutte mamme, sono tutti bambini. Sono tutti medici, sono tutte infermiere. Non esistono il bianco, il nero, il giallo. Esistono le malattie, come esiste la legalità, come esistono i diritti e i doveri per tutti. Qui, in questo corridoio del Buzzi, si respira fiducia. Senza fiducia non c’è comunità. Tutto il resto sono cazzate…”.

L’autore è un capo-cronista di lungo corso, Giancarlo Perego, scuderia Corriere della Sera. Il Buzzi è un fiore all’occhiello della sanità lombarda. Per il livello scientifico e clinico. Ma anche per l’umanità che vi fiorisce. L’ospedale è nato a fine ottocento da quel fenomeno che un po’ paciosamente si chiama Milan col coeur in man, che è un’antica attitudine della comunità meneghina e lombarda, o a dir tutto ambrosiana, a creare opere di risposta ai bisogni attraverso una comunione di scopi e di impegni da parte di medici appassionati (Raimondo Guaita, fondatore nel 1897), borghesia cattolica o laica interessata al bene comune (Vittore Buzzi, industriale del cioccolato, nel 1967 donò metà dei suoi averi), popolo, autorità religiose e amministrative.

Dopo centovent’anni, l’ospedale è sentito e vissuto ancora come un bene della comunità. Dove la comunità non è definita da parametri ideologici o politici, ma dalla libertà e dalla responsabilità delle persone. E’ un senso religioso quello che emerge quando si è sinceri e disarmati di fronte al bisogno specialmente dei piccoli indifesi che ci sono più cari. E ciò ci sospinge a sentirci accomunati non per il tornaconto, ma per la percezione di una comune fragile e bisognosa umanità, e così a guardarci “con fiducia”.

Vediamo ora che disastro ha combinato la politica comunale nelle scuole di Lodi, affrontando i problemi non con el coeur in man (nel senso che si è detto, non pacioso e banale) ma solo con il pregiudizio nel retropensiero e le regole in delibera. Parliamo di mensa e trasporto scolastico, servizi per i quali in genere si prevede una tariffa ordinaria e una tariffa scontata per i meno abbienti. Ovvio che la cosa va fatta con serietà, garantendosi che non ci siano furbetti che si approfittano. Quindi le famiglie devono esibire l’Isee. Giusto. Quelle extracomunitarie, però, devono esibire anche un documento da richiedere al consolato dei rispettivi paesi in cui si dichiarino i beni eventualmente posseduti nel paese d’origine, in lingua originale e traduzione certificata. Evidentemente la cosa non sta in piedi. Come diavolo ci si procura un documento del genere? E che significa poi? D’altra parte, senza quello la mensa costa cinque euro al giorno anziché due e il bus 210 euro a trimestre anziché 90. Risultato: bimbi italiani in mensa a scuola, bimbi stranieri a casa nell’intervallo di pranzo per poi essere riaccompagnati. Impraticabile per molti. Variante di buon senso introdotta a loro rischio dai presidi: potete portare la schiscetta, il panino da casa e mangiare a scuola. Già, ma le norme igieniche vigenti prevedono che non debbano avvicinarsi cibi confezionati per la mensa e cibi fatti in casa, su tutto il territorio nazionale, quindi si è dovuto separare i bimbi a scuola: in mensa i bianchi normodotati di reddito, in aule separate i bimbi di altre tinte poveri in canna. Ai primi yogurt nella ricreazione, ai secondi nisba. Un piccolo apartheid che anche i lumbardoni più integrali disapprovano, dato che i bambini c’hanno mica colpa loro. Anche la sindaca, architetta e leghista, di fronte alla mala parata ha capito di aver pestato una boascia, ma anche lei parla in burocratese e invece di dire “abbiamo fatto un provvedimento sbagliato”, ammette a denti stretti che “la deliberà presenta criticità”. L’errore è stato non aver guardato senza pregiudizi il bisogno dei bambini nelle sue varie sfaccettature. Come mai? Verosimilmente per via del retro-pensiero impellente: mettere in riga questi extracomunitari.

Per rimediare, si consiglia alla spettabile amministrazione di fare un po’ come quello della vecchia canzoncina, che andava a piedi da Lodi a Milano. Non però per incontrare la bella Gigogin, ma per guardare i volti e gli sguardi delle mamme, dei papà e dei nonni dei bambini-pazienti del Buzzi.