La reazione compassata dei mercati al varo della manovra italiana è una buona notizia, ma non è sufficiente per affermare che il budget 2019 del governo gialloverde ora “va bene”. Sbagliava del resto anche chi, nei giorni scorsi, riduceva le critiche al progetto di legge di stabilità al balzo dello spread oltre 300 (pur non trascurabile per gli stessi equilibri finanziari dell’azienda-Italia). Dubbi e riflessioni problematiche — certamente sul Sussidiario — sono e restano legate all’impianto e al contenuto del progetto di manovra: alle scelte di un’azione di politica economica-finanziaria che ha obiettivi chiari indipendenti dal governo chiamato a perseguirli (ripresa, occupazione, risanamento del debito pubblico, riconsolidamento del sistema bancario). Un tema che non va confuso con l’aderenza della manovra al “contratto di governo” (cioè alle promesse elettorali in vista del 4 marzo scorso o a quelle per il voto europeo del maggio 2019); né con l’uso politico-diplomatico della manovra nel contesto Ue.

Decreto fiscale e Ddl di stabilità partoriti dai compromessi multipli fra M5s e Lega, in una sintesi estrema, hanno privilegiato l’introduzione del reddito di cittadinanza e la riapertura delle finestre di pensionamento anticipato alla riduzione dell’imposizione fiscale per le imprese.

Sulla prima “guideline” il Sussidiario ha già espresso le riserve per la mancata qualificazione di un strumento “omnibus”: che confonde l’assistenza (esigenza peraltro reale contro incidenze di povertà nettamente accresciute nel Paese) con le politiche a favore dell’occupazione giovanile e dello sviluppo imprenditoriale nelle aree meno avanzate del Paese (politiche di cui non si vede traccia oltre i semplici stanziamenti-saldo).

Sul secondo punto i dubbi riguardano la debolezza di un allentamento della riforma Fornero apparentemente fine a se stesso: ancora una volta senza collegamenti visibili con gli obiettivi di politica industriale e a quella del lavoro. Idem per il rinvio della flat tax: che ha fra l’altro portato con sé, nell’immediato, l’amputazione del piano Industria 4.0 (riduzione dell’iper-ammortamento per la digitalizzazione; abolizione del superammortamento, mancata introduzione degli incentivi alla “formazione 4.0”). Quest’ultimo segnale evidenzia come il governo Conte punti alla fine ancora a stimolare i consumi e non gli investimenti produttivi privati: non diversamente da quanto fece il governo Renzi alla vigilia del voto europee 2014, con risultati brillanti sul piano elettorale ma nulli o quasi sul fronte della ripresa.

Ancora, la manovra ha utilizzato nuovamente il condono fiscale come strumento di finanziamento della politica economica corrente: lasciando nel cassetto — almeno nell’immediato — sia interventi taglia-debito sia una ripresa delle privatizzazioni. Governo e Regioni hanno sbloccato investimenti per alcuni miliardi, ma vogliono altresì appesantire la fiscalità su un sistema bancario interno, tutt’altro che messo in sicurezza ed esposto a mercati turbolenti.

L’abbozzo della manovra è pur sempre l’inizio ufficiale del suo processo. Che andrà nuovamente criticato — o eventualmente promosso — per i suoi risultati: quelli certificati dall’Istat.