Correvano il grosso rischio di assomigliare a degli scimpanzé, che quando si ubriacano di potere perdono il controllo. Apostoli-scimpanzé: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra“. E’ questa la richiesta che i “figli del tuono”, Giacomo e Giovanni, rivolgono al Maestro. Gliela indirizzano col loro vocione impostore, grancasse presuntuose: “Vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo“. Uno dei due, Giovanni, diverrà il più fine dei quattro evangelisti, il pittore del mistero, il teologo mistico: eppure, a ben guardare, oggi a spaventare è la sua arroganza più che il suo sguardo fatto di delicate sfumature.
L’aveva già abbozzato Sofocle qualche anno prima: “Non si può conoscere veramente la natura e il carattere di un uomo fino a che non lo si vede gestire il potere”. Gestirlo, per averlo desiderato, inseguito. Amato.
Son passate quasi mille giornate dalle prime, quelle presso il Mar di Galilea: giornate vissute accanto ad un Maestro con mani sporche dal troppo vangare, ginocchia grattate per il troppo inginocchiarsi, piedi polverosi per il troppo vagare. Eppure, a quanto sembra, i più intimi ancora non han compreso il cuore del messaggio. Ancora scalpitano per i primi posti, sgomitano tra di loro, tentano di assicurarsi il futuro per quando il Maestro se ne andrà. Uomini-scimpanzé, in perpetua lotta: “Gli altri, avendo sentito, cominciarono ad indignarsi con Giacomo e Giovanni“.
È il ritratto della prima chiesa nascente, quella che sognano quelli che dicono a qualunque Papa: “Dobbiamo tornare alla Chiesa primitiva, degli inizi”. E’ forte la domanda: “Chissà se costoro avranno letto qualcosa di quella Chiesa”. Che era popolata di omuncoli come noi oggi, assetati di potere, capricciosi, già convinti che il miglior modo per costruirsi il futuro sia quello di essere dei raccomandati.
Lui, l’ideatore di quella scolaresca, che fa? Uno, al posto suo, perderebbe la pazienza, anche la passione. Cristo, l’amante con una pazienza geologica, si rimette seduto a riparare la stoffa. Cucitura, rammendo: “Allora Gesù li chiamò a sé“. Più loro — i primi sacerdoti della storia — reagiscono male, più Lui rende avventurose le strade che spalanca in fronte a loro. È il paradosso dell’Uomo dei paradossi: quanto più l’uomo si ostina a pianificarsi il futuro, tanto più Dio lo scompiglia. Rovescia la storia, come fosse un calzino: “Chi vuol essere il primo tra di voi sarà schiavo di tutti“.
Eccezionale il Cristo: invece che imbufalirsi per quell’ennesima delusione scaraventata in faccia dagli amici, sale — come fosse una cattedra — sulla loro sete di potere e, sedutosi in quella “voglia”, rovescia la loro idea di potere. Smaschera, senza mezze misure e senza perdere la sua signorilità, che cosa abita dietro quella loro solo apparente obbedienza: “Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza” scriveva Oriana Fallaci. Ti strozza, nei Vangeli, citando Dio, seguendolo passo-passo. Strattonandolo.
Nessuno prende il potere con l’intenzione, poi, di abbandonarlo. E non c’è nulla di più matto, terribile di un potere illimitato nelle mani di un uomo folle. Per questo Cristo azzanna quella loro sete togliendo loro il respiro. Non dice: “Non serve il potere, amici”. Restituisce loro l’etimologia di quella parolina così grossa da diventare grassa: indica (dal latino poteo) la capacità di “poter fare qualcosa” che loro tentavano di dirottare a loro favore: “Potere imporre il proprio volere a qualcun altro”.
Gli hanno chiesto lumi, Lui rispose: “Volete il potere? Mettetevi in ginocchio: a lavare piedi sporchi, ancora prima di pregare. Lavandoli, starete già pregando. Regnando”. Circa i posti riservati, è sincero: “È per coloro per i quali è stato preparato” (cfr Mc 10,35-45).
Tempo al tempo, assisteranno in diretta: ad un Maestro con le ginocchia piegate a sciacquare loro i piedi, ad un ladrone che li sorpassa sul filo del fischio finale. L’aveva detto che, lassù, la prima fila aveva posti riservati.