Nelle stesse ore in cui il governo gialloverde presentava la legge di stabilità 2019 dal balcone di Palazzo Chigi, il Tribunale di Verona ha accettato l’unica offerta sul tavolo per la Melegatti in fallimento. Lo storico marchio del pandoro sarà rilevato con un investimento di 13,5 milioni dalla famiglia Spezzapria: una riservata dinastia imprenditoriale dell’Alto Vicentino. Giacomo e Giuditta Spezzapria – che s’impegneranno nel rilancio di Melegatti a fianco di un manager 33enne – sono esponenti della quinta generazione. La prima era composta di fabbri ferrai: le radici del polo Forgital affondano nel 1873. Dalle lavorazioni metalliche per gli attrezzi agricoli il gruppo (oggi forte di oltre mille dipendenti) è corso sulle vie dell’innovazione fino a diventare un global player nella componentistica aeronautica e aerospaziale. Cosa c’entra questa storia di successo con quella della Melegatti finita invece a rotoli dopo 120 anni?

“Amiamo il nostro territorio, le sue tradizioni ed è per noi motivo di grande orgoglio contribuire a preservare le sue eccellenze produttive, ha detto Giacomo Spezzapria il nuovo patron Melegatti. Dietro e dopo le parole ci sono i fatti, molti. Oltre all’investimento finanziario, c’è la volontà di togliere dalla cassa integrazione una cinquantina di dipendenti e di rimettere in moto il prima possibile la produzione per non perdere il mercato natalizio. Denis Del Moro, il nuovo chief executive, è già impegnato da un anno nel rilancio delle acque minerali Fonte Margherita, sempre sulle Prealpi vicentine. Giuditta Spezzapria è una pastry chef. Nella galassia imprenditoriale di famiglia vi sono anche aziende produttrici di imballaggi alimentari, appoggio di possibili sinergie con Melegatti. Tutte aziende rigorosamente basate in Italia: solo economia reale, solo Made in Italy.

Perché la manovra 2019 ignora completamente il salvataggio 2018 di Melegatti e l’impegno della famiglia Spezzapria? Perché, anzi, sembra muoversi ostentatamente in ogni immaginabile direzione contraria? Perché pretende di distribuire risorse pubbliche inesistenti per il reddito di cittadinanza – con efficacia prevedibilmente nulla per la ripresa – e rifiuta di mettere a disposizione il massimo praticabile di fiscalità di vantaggio alle imprese che mostrano di meritarlo “senza se e senza ma”? A vantaggio delle imprese, anzi: degli imprenditori ancora disposti a rischiare propri capitali in Italia per produrre Pil, export, occupazione e quindi anche gettito fiscale.

Se la legge di stabilità 2019 potesse essere riscritta – forse dovrà esserlo, ma sarebbe più credibile un governo che lo facesse di sua volontà – dovrebbe ricomprendere consistenti bonus fiscali per chi investe nel salvataggio di un’azienda italiana in concordato o addirittura fallimento. Un governo serio avrebbe il diritto di chiedere ai nuovi imprenditori garanzie occupazionali e sostegno tangibile dell’impegno nel tempo (normalmente con il reinvestimento degli utili per un certo numero di esercizi). Ma dovrebbe considerare prioritario fare politica industriale con strumenti efficaci: paragonabili a quelli del piano Industria 4.0. Invece le priorità del governo Di Maio-Salvini sono con tutta evidenza l’assistenzialismo clientelare e l’intenzionale messa a rischio finanziario del Paese come arma politico-diplomatica in Europa. Forse comprensibile – comunque mai giustificabile – da parte di M5S. Incomprensibile da parte della Lega.