“Al collaudo ci mando il geometra e della commissione urbanistica me ne fotto”: architetto Rambaldo Melandri in Amici miei atto primo, 1975.  “I mercati non li temo e di Bruxelles me ne frego”: vicepremier-uno e vicepremier-due del governo gialloverde, 2018. La ratio è analoga. Solo che il Rambaldo punta a una zingarata goliardica, mentre Matteo e Giggino puntano alla demolizione della Bastiglia europea da parte delle forze populiste e sovraniste, in crescita in quasi tutti i paesi dell’est e dell’ovest. I due pro-consoli si sono spinti a un tale livello di azzardo sui conti dell’Italia che possono sperare di vincere la partita, o almeno farla franca, solo cambiando l’arbitro.

Perché abbiano imboccato questa strada e a quale bivio si trovi ora il Paese lo hanno messo a fuoco due penetranti articoli che Luciano Violante e Mauro Magatti hanno scritto l’altroieri e ieri sul Corriere. Secondo l’ex presidente della Camera l’attuale esecutivo si concepisce come rappresentanza morale più che politica, del popolo, i suoi impegni corrispondono a principi non negoziabili, al punto da prevalere sul principio stesso di realtà: non solo il mercato (contesto oggettivo che decide del costo del debito), ma anche i limiti al potere per quanto di investitura popolare (Costituzione) e le regole comuni sovranazionali (Europa).  

E’ un impianto, a mio giudizio, da governo “rivoluzionario”, in quanto si sente detentore e interprete della totalità delle istanze popolari di cambiamento rispetto al sistema di prima; per esso ogni promessa è debito (nel senso ahimè anche di debito pubblico) indispensabile per la mietitura del consenso, e il dissenso demonizzabile come difesa dall’ancien régime nemico del popolo.

I principali nemici del popolo sono, nella Weltanschauung giallo-verde, due: quello interno, la casta; quello esterno: l’Unione Europea. La “casta” è sostanzialmente stata fatta fuori il 4 marzo, ridotta a un’opposizione disorientata. L’Unione Europea è nel mirino dei sovranisti. Quindi la partita c’è ed è seria. Culturalmente, oltre che politicamente, seria. Per usare un luogo comune, si rischia di buttare via con l’acqua sporca (i saccenti strapagati e non votati, brontosauri con il lapis rosso e blu: ma non sono mica tutti così) anche il bambino (la dinamica comunitaria dell’Europa).

Il tema è: come si salva il bambino? Ovvero, che è lo stesso, che strada può imboccare l’Italia?

Qui aiuta molto lo scritto del sociologo dell’Università Cattolica. Egli prende spunto da una  frase di Gramsci per descrivere l’oggi: “Il vecchio non basta più, il nuovo non può nascere e si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Vede l’Italia, nel bel mezzo di un cambio d’epoca, al bivio tra rottura e avvio di un processo virtuoso di innovazione economica e istituzionale. A questo nuovo inizio, non giovano né la difesa del vecchio establishment (di cui i partiti dell’opposizione fanno parte), il ritorno a un assetto per così dire “tradizionale”, né un appello alla “ragionevolezza” del realismo, dopo dieci anni di crisi in cui gli italiani hanno fatto sacrifici senza vedere il risultato. Occorre, da subito, dice Magatti, dedicarsi alla costruzione del nuovo.

Futuri assetti dell’Italia e futuri assetti dell’Europa sono inscindibilmente legati. Posizioni ideali e concezioni sull’identità e sul ruolo dell’Europa riflettono la concezione del bene comune che abbiamo. Il formarsi della Comunità europea è un miracolo storico e geo-politico dovuto a veri statisti capaci di stare al livello delle sfide epocali del dopoguerra, in cui gli interessi economici, a cominciare dal carbone e dall’acciaio, sono diventate strumenti di crescita nella pace (che dura da 73 anni, record mondiale di tutti i tempi) anziché fattore scatenante guerre mondiali. Questa costruzione è stata possibile perché l’Europa — il bambino da non buttare via con l’acqua sporca — è il frutto, come ha ricordato Benedetto XVI, dell’incontro tra religiosità ebraica, ragione greca, diritto romano che, fecondate dal cristianesimo e attraverso la stagione dell’illuminismo, ha prodotto la civiltà dei diritti umani basata sul primato della persona e il protagonismo sussidiario dei corpi intermedi, tesa al bene comune e alla cooperazione tra i popoli. Una roba che non si fa per decreto.

Papa Francesco, ricevendo il premio Carlo Magno, ha parlato senza peli sulla lingua di una “nonna Europa” stanca e decadente, tentata di dominare spazi invece che favorire un nuovo umanesimo capace di integrare, dialogare e generare. Ed ha esortato tutti ad essere parte attiva dell’edificazione di una “società integrata e riconciliata” — un “aggiornamento dell’idea di Europa”, che diventi laboratorio di ricerca “di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società… Occorre passare da un’economia liquida  che punta al reddito e al profitto (…)  ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro (ben pagato) e qualificazione, soprattutto per i giovani. E’ infatti il lavoro l’ambito “in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri”.

In questo modo — un nuovo ora et labora — la speranza può essere posta nella (mia) esperienza, dal basso, e non nella ruota della fortuna delle promesse altrui, dall’alto. L’oro alla patria, gli italiani, l’hanno già dato.