Questa settimana a Madrid verrà presentato El Abrazo, l’ultimo libro di Mikel Azurmendi. Il sociologo, il professore di filosofia, uno dei grandi artefici della resistenza intellettuale all’Eta, lo studioso dell’immigrazione, un riferimento come pochi in Spagna su tanti temi si è addentrato in un’inchiesta sulla vita dei cristiani di Comunione e liberazione. “La mia ricerca su questi cristiani così speciali non è stato altro che indagare sul significato della vita”, dice.

Azurmendi inizia il suo lavoro da una serie di incontri fortuiti. In un momento della vita in cui ha percepito “che gli altri mi stavano chiamando”, il sociologo intraprende un viaggio sorprendente. Un itinerario segnato da decine di relazioni personali che osserva con un capacità sorprendente di andare a fondo. Buona parte delle grandi questioni della filosofia e della sociologia moderna sono presenti in quegli occhi che arrivano con quella genialità che solo alcuni artisti hanno, con un orecchio assoluto, al “mondo della vita” che si fa giudizio, possibilità. La cosa affascinante è che tutto l’apparato critico di Azurmendi non è fonte di scetticismo davanti a storie umane piene di limiti, non alimenta obiezioni ragionevoli in un 90% delle loro motivazioni.

“Non sono mai stato ateo, ma fin da giovane ho sempre pensato che la questione di Dio fosse insolubile”, confessa nelle prime pagine. Azurmendi accetta l’ipotesi che gli si presenta in uno dei suoi primi incontri: “Puoi diventare un uomo rinnovato dal tuo abbraccio con Gesù. Questo è l’altro”. E inizia un viaggio in cui il lettore è sorpreso dal costante confronto tra ciò che viene visto e colui che guarda. Forse è questo esercizio che rende il libro unico. Arriva un momento in cui il confronto sorprende lo stesso sociologo: “Qui dove sto prendendo atto di ciò che ho visto, sono fermato dal dubbio di aver abbandonato la norma scientifica”. L’esigenza di razionalità è così seria che abbandona il metodo “della logica e non della ricerca della verità, solamente interessato a mostrare la coerenza interna tra credenze e pratiche”. La conoscenza dell’oggetto è così importante per Azurmendi che decide di superare la regola imposta da Danièle Hervieu-Léger, regola secondo la quale “nel campo della sociologia, il ricercatore deve sfuggire alla comunione con il suo oggetto”.

Questo significa che il sociologo ha abbandonato la razionalità? Tutto l’opposto: trova un altro metodo per salvarla. Uno dei momenti più drammatici e intensi del volume è il capitolo dedicato a ad alcune vacanze di CL a cui partecipa. Il sociologo, di fronte a quel che vede, ricorda gli ultimi diari di Wittgenstein e si chiede: “Perché è rimasto ad aspettare Dio sotto il lucernario del suo studio senza uscire per incontrarlo?”. Azurmendi intravede il lucernario dopo aver scritto: “A Masella (uno dei luoghi delle vacanze, ndt) nessuno ha tirato fuori un coniglio dal cilindro o ha svolto un lavoro di ingegneria sociale per infilare Cristo come con un calzascarpe. L’esperienza della grazia è stata consolidata in ognuno dei presenti dalla presenza di Gesù-Dio sotto forma di compagni di tavola, di gioco o di camminata (…) È irrazionale questo? Non è forse questa credenza cristiana mille volte più razionale di quella con cui i sociologi chiamerebbero quanto avvenuto a Masella, uno stato di effervescenza collettiva? Cos’è più plausibile, che questi cristiani siano ingannati dalle idee della classe dominante (Marx-Engels) o che Dio possa essere ciò che dicono, amore?”.

Ci sono tre aspetti in cui il confronto di Mikel tra la sua persona, le sfide sociali e l’esperienza cristiana è particolarmente suggestivo: l’identità, la carità e l’educazione. Il sociologo, con una raffinata intelligenza storica, sottolinea che il tempo presente è segnato dalla costruzione di identità senza un legame con la realtà. Noi siamo il ruolo del momento, viviamo senza unità. Assumere un ruolo significa scomparire completamente nel sé virtuale elaborato dalla circostanza (Goffman). Trova la risposta, per questa sfida, in un gruppo di famiglie per le quali è possibile essere “costitutivamente felici” e non solo vivere momenti felici.

Azurmendi, che ha dedicato buona parte della sua vita all’insegnamento, assicura che l’istruzione è aiutare a dare significato alla realtà. Nell’incontro con questi cristiani è sorpreso dal fatto che in una delle loro scuole venga detto ai bambini “Tu sei un dono”. Con questa consapevolezza, “la realtà non è, quindi, la spiegazione della realtà, ma il gioco della realtà”, il legame con la realtà.

Azurmendi racconta il suo incontro con un gruppo di persone che dedicano il loro tempo all’accompagnamento dei tossicodipendenti. Non nasconde il primo rifiuto che gli provoca questa carità che sembra inutile. E poi lo mette in dialogo con i pensieri di Weber e Durkheim. Questi due sociologi affermano che l’individualismo è l’unica morale per una società democratica liberale e che la carità non è razionale. Azurmendi, dopo le sue prime resistenze, afferma che “la carità può essere un artefatto accurato per sviluppare l’identità personale e collettiva”.

Quelli di Azurmendi sono decisamente occhi che vedono.