Un anno fa come oggi, alla casa d’arte Christie’s di New York veniva venduto il quadro più caro della storia: il “Salvator Mundi” di Leonardo Da Vinci. Per una cifra di 450 milioni di dollari se lo era aggiudicato un principe saudita, Mohammed bin Salman. Il quadro ha una storia rocambolesca e strana, ricostruita in un libro appena pubblicato, scritto da Pierluigi Panza. Per molto tempo si è pensato che fosse una brutta replica di un originale leonardesco perduto. È stata la restauratrice Dianne Dwyer Modestini, a cui il dipinto era stato affidato, a rendersi conto che su quella tavola di legno di noce non c’era una replica, bensì un originale di Leonardo; o meglio quello che di quell’originale era resistito alle malversazioni del tempo.
Dianne Modestini è un’autorità in materia, essendo moglie di un grande conoscitore italiano e avendo prestato servizio per molti anni come restauratrice al Metropolitan Museum di New York. È lei ad assicurare che le mani del “Salvator Mundi” sono dipinte come è dipinta la Gioconda. Sulla base di queste valutazioni suffragate dalla critica, il quadro era stato esposto alla grande mostra su Leonardo organizzata alla National Gallery di Londra nel 2014. È un’opera che ha una potenza iconica che quasi ipnotizza e che arriva a noi nonostante le cattive condizioni e i ritocchi che ha subito nel tempo. È un quadro-reliquia, di una profondità densa di mistero.
Che un principe saudita avesse acquistato un capolavoro con un soggetto così spiccatamente cristiano era cosa che poteva sorprendere. Poi però si capì che c’era una strategia d’immagine dietro il clamoroso acquisto, in quanto il quadro avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello (in deposito ovviamente) del nuovo Louvre costruito ad Abu Dhabi. Era stata annunciata anche una data di inaugurazione, il 24 ottobre. Peccato che invece nulla sia accaduto e che il quadro, come ha denunciato la stessa Modestini all’interno di un’inchiesta realizzata da Dario Pappalardo per Repubblica, sia di fatto sparito.
A maggio ha lasciato New York, dopo che era stata pagata l’ultima rata e da allora non si sa dove sia finito e che destino gli sia stato riservato. La restauratrice si è detta tra l’altro molto allarmata anche sui rischi per la conservazione, perché la tavola è delicatissima e potrebbe soffrire gravi danni da sbalzi climatici o dall’umidità. L’opera è sparita e neppure il Louvre parigino, che il 18 settembre inaugurerà la grande mostra per i 500 anni dalla morte di Leonardo, non sa se potrà esporre come annunciato il “Salvator Mundi”.
Comunque vada a finire la vicenda obbliga ad una riflessione. Chi ha comperato quell’opera non ha comperato il diritto a sottrarla agli occhi degli uomini. È un discorso che vale per il Leonardo come potrebbe valere per altri capolavori imprescindibili che dovessero apparire sul mercato. È questa logica proterva e prevaricante del possesso che impressiona e che ferisce. È una sorta di dittatura originata dal potere economico, grazie alla quale si rende possibile cancellare l’identità di oggetti che per loro natura appartengono non ad una persona ma al mondo. Poi può accadere che una persona abbia la fortuna di poter custodire questi tesori. Ma custodirli non vuol dire nasconderli e sentirsene “padroni”. Probabilmente non ci sono strumenti per impedire che queste cose accadano, dato che “l’imperialismo internazionale del denaro” (formula coniata da Pio XI) caratterizza il nostro tempo. Ma si lasci almeno rivendicare il fatto che quel quadro non appartiene a chi l’ha pagato. Appartiene a ciascuno di noi.