La percezione di fondo è che in questo frangente della storia, e della vita personale di ciascuno, accadano tante cose, ma in definitiva non cambi alcunché. È come se tutto si fosse fermato, impantanato in un misto di risentimento e disincanto che solo fugaci emozioni sembrano a tratti superare. Non mancano gesti nobili, parole autorevoli e analisi profonde, eppure nulla sembra scalfire la violenza con la quale si vive ogni cosa: il matrimonio è violento nei suoi ricatti e nelle sue pretese, il lavoro è violento con le sue performance e i suoi pettegolezzi, la politica è violenta nella sua smania di rispondere a tutto, senza ammettere sul serio una dialettica democratica.

In un quadro simile è come se l’Io di ciascuno arrancasse, prigioniero dell’umore e delle situazioni che si alternano, stanco delle continue sollecitazioni che provengono dal contesto circostante, sollecitazioni che lo frammentano, sfibrandolo e allontanandolo dal rapporto con sé, rendendolo sempre più solo, alla ricerca soltanto di un bene da poter consumare. Quello che oggi ci manca, quello di cui sentiamo più nostalgia, non è il ritorno di un mondo mitico che non c’è più, e neppure una qualche forma di giustizia o di rivalsa, quello che oggi ci manca è l’esperienza della libertà. Ogni fatto, doloroso o gioioso che sia, tende a soffocarci, ogni rapporto ci sta stretto, in ogni circostanza ravvediamo una possibile condanna, attendendo il venerdì o le ferie per poter respirare un po’.

Il punto è che, in un momento così culturalmente anestetizzato, quest’imbarazzante disagio viene censurato, sostituito dalla ricerca testarda di un qualcosa di prodigioso o miracolistico che metta in moto una sorta di “riscossa” della volontà e del buon senso.

Dinnanzi a ciò, accade però qualcosa di inaspettato: nell’udienza solita del mercoledì col Papa in Aula Paolo VI, un bambino sordomuto è sfuggito dalle maglie della sicurezza e si è messo a stuzzicare le Guardie svizzere proprio mentre era in corso un momento particolarmente ufficiale. Il Papa, lontano dall’essere indifferente o dallo stigmatizzare l’accaduto, ha riconosciuto in quel piccolino un’esperienza di libertà, resa possibile dalla percezione che il piccolo aveva di essere dentro a un rapporto con un Padre.

In fondo ci manca la libertà, e soffochiamo nel reale, perché ci manca un Padre, perché ci manca l’esperienza di un Tu, perché le circostanze non sono il luogo della verifica di un rapporto, ma solo un incidente — più o meno gradito — che ci sottrae alla vita che immaginiamo. Alla radice di tutto sta un’assenza, una mancata disponibilità del cuore a fare seriamente un cammino di conversione e di crescita: abbiamo paura di quello che potremmo diventare andando fino in fondo alle domande che abbiamo dentro, temiamo che la supposta felicità ci porti via dall’accogliente mediocrità cui siamo attaccati, restiamo impauriti dalla possibilità di essere circondati da persone che non riconoscano il nostro valore.

Da qualche mese a XFactor, il talent di Sky, circola una canzoncina di una delle concorrenti che ha un titolo emblematico, “Cherofobia”, paura della felicità. La felicità ci impaurisce perché fare tutta la strada per poterla sperimentare ci cambia, ci disturba, ci sposta dalle nostre sicurezze. Meglio naufragare nel nostro male, meglio mendicare la fine del mondo, meglio vivere da arrabbiati. In questo modo si evita di sentire tutto il bisogno che abbiamo di tornare a respirare, tutta l’esigenza che avvertiamo di vivere davvero la vita. E ricominciare ad essere liberi.