Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti dello scorso 6 novembre, guardate con l’occhio del notista politico non hanno determinato nulla di eccezionale. L’anatra non è stata del tutto azzoppata, secondo il noto modo di dire anglosassone che identifica un presidente degli Stati Uniti privo di una maggioranza al Congresso. In estrema sintesi: avendo perso la Camera, Donald Trump potrà essere bloccato su leggi fondamentali inerenti la politica interna, quali quelle sulle tasse e sull’immigrazione. Essendosi però rafforzato in Senato, non avrà di fatto condizionamenti importanti sulla politica estera, che è di sua stretta competenza, e potrà ricevere conferma sulle nomine più importanti che farà.

Se si considera il fatto che le elezioni di midterm sono tradizionalmente usate per riequilibrare il potere tra forze politiche ed è quindi usuale che con esse vengano in parte penalizzati i presidenti in carica (è successo anche a leader considerati di successo quali Ronald Reagan o Barack Obama), si potrebbe concludere che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Nella realtà però gli Usa stanno vivendo la crisi di identità più acuta di tutta la loro storia. Al punto che, come mi ha detto un amico californiano, il sentire dominante è attraversato da domande angoscianti, quali: “Esiste ancora un popolo americano? Cosa significa essere americani? Che cosa è in grado di unire?”. Un altro amico newyorkese invece mi ha detto, riferendosi a chi è pro e contro Trump: “Non ho mai visto un Paese così spaccato in due: due società nettamente divise che sembrano non avere nulla da dirsi e non vogliono nemmeno provarci”.

Nella realtà le fazioni sono moltissime, tanto che si è tornati a parlare di tribalismo. Gli Stati Uniti nascono con una grande ambizione, quella di affermare il diritto di tutti a perseguire progresso e felicità, come recita la Costituzione del 1776: “I popoli americani hanno riconosciuto la dignità della persona, e le loro costituzioni nazionali riconoscono che le istituzioni giuridiche e politiche, che regolano la vita nella società umana, hanno come loro principale obiettivo la tutela dei diritti essenziali dell’uomo e la creazione di condizioni che permettano a lui di realizzare il progresso spirituale e materiale e raggiungere la felicità”.

È l’idea che chiunque può diventare ricco, elevarsi socialmente, favorito dal dinamismo eccezionale della vita economica. È in fin dei conti l’idea della conquista del West, della frontiera che diventa dinamica quotidiana: affrontando pericoli, difficoltà enormi, anche violenze e soprusi – molti, se paragonati al resto del mondo – ce la faranno. Una selezione basata sul merito, sulle capacità, sul valore, così come documenta la maggior parte dei film proveniente da Oltreoceano. Come sappiamo, è un’affermazione di uguaglianza delle opportunità che ha prodotto invece una profonda disuguaglianza. Si pensi al genocidio dei nativi americani, alla discriminazione razziale che neanche la guerra civile è riuscita a risolvere. Si pensi agli innumerevoli vinti che continuano a popolare questa società.

In ogni caso, un’unità di popolo fondata su un progetto di realizzazione personale e sociale ha tenuto fino all’inizio degli anni Novanta, continuamente rilanciata anche politicamente dal New Deal di Roosevelt, dalla nuova frontiera di Kennedy, dalla “Great Society” di Johnson e persino dalla figura di Reagan. Ora, questo equilibrio si è rotto. La spinta alla finanziarizzazione degli anni Novanta, l’11 settembre e poi la grande crisi del 2008 hanno drammaticamente incrinato il sogno americano che conteneva l’idea: essere bravi, avere successo è decisivo nel definire chi si è. A questo punto è emersa una società spaccata in due: da una parte la finanza, i ricchi, le classi acculturate delle grandi città dell’Est e dell’Ovest, che vivono comunque di privilegi; dall’altra parte, l’ex classe operaia della Rust belt, il popolo che nel Midwest affolla i vari Walmart, i sottoproletari completamente abbandonati anche dal partito democratico.

Negli ultimi anni la disoccupazione sta diminuendo, ma i lavori sono precari come non mai. La vita per le famiglie giovani in città come New York è diventata economicamente impossibile, l’accesso alle migliori scuole e università rimangono appannaggio di élites, conservatrici o liberal, mentre le classi medie spariscono.

A New York, tre amici che si sono sposati negli anni Ottanta, sono riusciti a mantenere l’intera famiglia, moglie compresa, a mandare i figli nelle scuole private e a sostenere un mutuo per pagarsi la casa. I loro figli hanno da poco messo su famiglie in cui entrambe i genitori lavorano, i bambini non possono permettersi le scuole private e soprattutto non possono acquistare la casa. Alcuni sono emigrati nel Midwest.

Le campagne elettorali dagli anni Novanta hanno ulteriormente incrinato il problema identitario, usando strategie di marketing che hanno contribuito a parcellizzare i gruppi in base a caratteristiche etniche e a stili di vita. Il problema di ogni politico è diventato ad esempio come orientare il voto di donne afroamericane, piuttosto che dei giovani bianchi delle coste, in base alle loro esigenze. E successivamente la “pezza” è risultata peggiore del “buco”, visto che la difesa di pur legittimi diritti è diventata l’ossessione del “politically correct” nei confronti delle minoranze, fino all’esigenza parossistica dei “safe spaces”, luoghi in cui proteggersi persino da opinioni altrui diverse dalle proprie.

Così il popolo che si è sentito più insicuro e minacciato, ha scelto un miliardario populista come Trump, che non ha fatto che acuire le divisioni, richiamando però ai valori identitari originali di un’America che in parte non esiste più. Gli americani non sanno più chi sono, al punto che la storia del loro Paese viene insegnata in modo differente in base allo Stato in cui vivi. E anche al punto da rinunciare a festeggiare il Columbus day in California, per senso di colpa verso i nativi americani.

Quale fisionomia riconquisteranno gli Stati Uniti è ancora tutto da comprendere. Una cosa però è certa: possono tornare a guardare la loro vita quotidiana per capire che il diritto alla felicità, sancito nella loro Costituzione, si raggiunge non con la riuscita di alcuni, ma con un desiderio non ridotto di tutti.