Autorizzati a pensare. È il titolo molto bello e anche un po’ sorprendente del discorso che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini ha tenuto, come da tradizione, in occasione di Sant’Ambrogio. Non essendo un discorso che ha fornito spunti per polemiche di parte (cioè spunti che paralizzano proprio la capacità di pensare), non ha avuto il giusto rilievo mediatico. Tornarci sopra è quindi più che un atto doveroso, una scelta conveniente: quelle parole sono uno stimolo a riattivare un’energia che è propria dell’umano e che invece per comodità borghese o per istupidimento ideologico teniamo in letargo.

C’è anche un filo di ironia che definirei di stampo “guareschiano”, in questo titolo voluto, o meglio “pensato” da Delpini. “Autorizzati a pensare” è come dire “ricordati che esisti”, se è vero, come scrive Giacomo Contri, che la “vita è pensiero”. D’altra parte lo stesso psicoanalista riconosce che questa evidenza oggi non è scontata e che quindi “si tratta di rifarsi la bocca al pensiero, al pensiero amico”. L’uso di quel verbo al participio passato, “autorizzati”, è un richiamo paterno e deciso che sottintende un giudizio su quello che oggi sta accadendo: che la libertà di pensiero è innanzitutto garantita dal tenere esercitato il pensiero stesso. Quella libertà è un principio sacrosanto che non può essere garantito dall’esterno, se non trova riscontro in una capacità interna, da parte delle persone, di fare uso di quel bene.

Oggi la libertà che per tutti è intoccabile, diritto non negoziabile, in realtà è messa a rischio dal fatto che troppo spesso ci si scorda di metterla in opera. Ecco perché Delpini ci ricorda quella cosa così elementare, ma per nulla scontata, che siamo “autorizzati” a pensare. Forse ce ne siamo un po’ dimenticati.

Si può obiettare che se il pensiero è un bene, non tutti i pensieri sono per forza buoni. Credo che proprio per questo Delpini, più che sul sostantivo abbia puntato sul verbo: “pensare”. Cioè sul pensiero in azione, che si apre al reale e che si confronta con le evidenze. Che si mette in gioco, si confronta e accetta anche il rischio di essere sconfessato. Il pensiero non è punto fermo, ma è intelligenza in movimento, che vaglia le cose e non si fissa sugli apriori. In questo modo l’azione del pensare diventa anche una dinamica di relazione, perché il pensiero cerca l’ancoraggio “dolce” in una condivisione: ed è grazie a questa dinamica, scrive Delpini, che si ha una vera crescita e consolidamento del bene comune. E poi aggiunge: il pensare dà “buone ragioni alla fiducia, alla reciproca relazione, a quella sapienza che viene dall’alto che ‘anzitutto è pura, pacifica e mite’” (la citazione è dalla lettera di San Giacomo, da cui il discorso del 7 dicembre ha preso spunto).

Il pensare garantisce quella che Delpini definisce “una ragionevolezza diffusa…; essere persone ragionevoli è contributo indispensabile al bene comune… Nella comunità del pensare riflessivo, e non del vociare emotivo, si riconosce, si promuove, si custodisce e si propizia l’umano-che-è comune”. Per questo l’arcivescovo Mario auspica “un esercizio pubblico dell’intelligenza, che si metta al servizio della convivenza di tutti”.

In fondo il discorso di Delpini è già un “esercizio pubblico di intelligenza”. Cioè è discorso in atto; prima attuazione di quel che con le parole viene auspicato. Nel tono e nella tranquilla capacità persuasiva ricorda il modo di ragionare al cospetto di tutti di Foster Wallace. Il quale a chi gli chiedeva perché tenesse sempre la bandana, rispondeva che in tante culture era considerato opportuno tenere la testa coperta, “per non perdere la testa”. Cioè quel bene prezioso in cui abita il pensare.