Silvia Romano è da diverso tempo nelle mani dei suoi sequestratori in Africa, è giovane, è una volontaria che ha fatto molto parlare di sé i primi giorni dopo la scomparsa, eppure adesso non la ricorda quasi più nessuno. Antonio Megalizzi è morto per caso nell’attentato terroristico ai mercatini di Natale di Strasburgo, c’è stato qualche commento sulla vicenda, alcune frasi di circostanza, il funerale, e poi tutto è andato avanti come se niente fosse. La cifra del nostro tempo è l’estraneità. Non ideologica o politica, non culturale o esistenziale: aleggia per le nostre strade un’estraneità emotiva, un’estraneità per cui non riusciamo più a sentire la gioia dell’altro né il suo dolore.

Ostaggi di mille cose e di mille pensieri, si è fatta strada fra noi una distanza per la quale la tua vita non c’entra più con la mia e — cosa forse ancor più tragica — la mia vita non ha più niente a che vedere con la tua. È sorto il tempo di una nuova solitudine, un menefreghismo di fondo che nasce dall’aver globalizzato l’indifferenza, dall’aver teorizzato l’insofferenza per chi è umano come me e, con la sua vita, interpella la mia. A forza di dire “prima gli Americani”, “prima gli Italiani”, “prima i Russi”, si stanno scavando tra i popoli fratture e distanze che sembrano dimenticare la cruda possibilità della guerra. Lo ha detto l’altro ieri un uomo non tacciabile di buonismo o di terzomondismo come Vladimir Putin: “Il mondo rischia una catastrofe nucleare”.

Il fatto è che questa catastrofe c’è già nei rapporti, nelle amicizie, sul lavoro, nell’amore: ridotti ad isole, gli uomini non sanno comunicare il loro dolore e il loro bisogno se non con la violenza, una violenza che è diventata la forma del vivere comune del nostro tempo. Affacciatevi su internet, frequentate i social, provate a far notare qualcosa che non va in una coda dentro ad un ufficio pubblico. Oppure semplicemente guardate come si evitano gli umani in metropolitana, sui treni, sugli autobus. “Io non voglio avere a che fare niente con te”, “Tu mi dai fastidio”. Le feste, la musica, i regali, non sono altro che un tentativo goffo di colmare questa distanza, di porre fine a questa estraneità.

Perché la verità è che per questo abisso che ci separa da chi amiamo, per questa ultima solitudine, noi soffriamo. In mezzo a tutte queste lontananze è insorta la paura dell’amore, la paura di non essere amati, di non valere. Così, come quando eravamo piccoli, cerchiamo di attirare l’attenzione degli altri con qualcosa di nostro, o anche solo urlando più forte, mettendoci ubriachi in coro a far tacere con i nostri canti e le nostre volgarità tutto quel silenzio terribile che ci assalta il cuore.

Così ci si avvicina al Natale sempre più scettici, sempre più apparentemente superiori e irriverenti, sempre più pieni di giudizi e di chiacchiere. E si cerca in ogni modo di non fermarsi, di non sostare, di non permanere nel silenzio della notte. Ma è tutta una recita. Ciascuno in fondo lo sa che il proprio cuore attende la notte di Natale. Ciascuno lo sa che dentro di noi non desideriamo altro che poter di nuovo credere a quello che intuivamo da piccoli, ossia che qualcosa era avvenuto per noi, che valeva ancora la pena aspettare qualcosa.

La notte di Natale il mondo trattiene il respiro e, per un istante, ritorna se stesso, capace di farsi stupire dalla forza di un Bimbo, dalla forza di qualcosa che c’è. Eppure la magia dura poco: il cibo e la festa riempiono di nuovo lo sguardo, il rumore del capodanno invade la mente e ogni cosa ripiomba nel suo cinismo, nel suo tragico scetticismo. Non perché quella notte non sia accaduto alcunché, non perché l’uomo sia cattivo. Ma per il semplice fatto di non aver trovato qualcuno con cui iniziare davvero a seguire lo stupore di quel vagito, la forza di quel pianto che squarcia la notte e restituisce speranza.

C’è una cosa più grave di non avere speranza, diceva qualcuno: è aver sperimentato un istante la speranza, ma non aver qualcuno con cui viverla. Alla fine la sfida del Natale è tutta qui: se, dopo l’ebbrezza dell’attesa, abbiamo l’umiltà di fermarci e di stare insieme di fronte ad una Presenza. Si è amici per lo sport, amici per il lavoro, amici per stordirsi e non pensare. A me quest’anno piacerebbe essere amico con qualcuno per uno stupore. Di questa amicizia, di questa appassionata compagnia, abbiamo bisogno tutti, ne ha bisogno la storia.

Avremo noi il coraggio di tornare bambini? Avremo noi il coraggio di cedere alla meraviglia di quella notte? Permetteremo noi al Mistero Eterno di sfondare la nostra paura e porre fine a questa esasperata solitudine? A volte si teme proprio questo: che possa accadere Qualcosa che ci cambi davvero.