La differenza è nel genere e in altri dettagli, ma l’ignoranza è la stessa. Un’ignoranza senza colpa. La donna soldato a cui tocca in queste ore presidiare il check-point della tomba di Rachele, che consente l’accesso a Betlemme, a Beit Sahour (dove c’erano i pastori) e Beit Jala, fa il suo lavoro in maniera esaustiva. Forse troppo per giorni come questi in cui ci sono più turisti stranieri. Controlla gli interni delle auto, sale sugli autobus, di tanto in tanto chiede i passaporti.

La donna soldato israeliana ha i capelli lunghi e ben curati. Sa che si celebra una festa cristiana, ma non conosce tutti i dettagli. A scuola ha sentito parlare dei cristiani, ma per lei sono tutti palestinesi. La donna soldato dai capelli lunghi, ben istruita, non sa che si sta compiendo la promessa fatta al Re David, che nasce l’erede della casa di Giacobbe. Quello che ha davanti un regno che si estende da mare a mare e che dura per sempre. Come 2000 anni fa, ci sono soldati alle porte della mangiatoia e c’è un’occupazione. Anche il soldato romano non sapeva cosa stava succedendo. Come 2000 anni fa la nascita arriva con discrezione, con una maggioranza della popolazione del paese indaffarata in altre cose, con un bisogno molto concreto di una liberazione politica che l’erede al trono non viene a risolvere.

“La gente se ne va di qui perché non c’è futuro”, spiega Suhail Daibles, direttore della scuola cattolica di Beit Jala. Ostinatamente, le circostanze parlano. Parla lo status di minoranza dei battezzati, il loro crescente esodo, il protagonismo assoluto di un Islam tentato di radicalizzarsi, il progetto di una grande Gerusalemme solo ebraica che cresce in Cisgiordania, le donne velate, i soldati di pattuglia, la solitudine della Basilica della Natività in una città impegnata in altro. Ostinatamente le circostanze certificano che la nascita non è quella di un cristianesimo che non esiste, che la nascita è quella del primo cristiano. Come se le circostanze volessero insistere sulla natura del regno che comincia.

Il muezzin chiama alla preghiera e il giornale spiega che la commissione legislativa del Governo Netanyahu, alla vigilia di Natale, ha messo a punto la nuova norma che permetterà di espropriare i terreni delle chiese e di soffocarle fiscalmente. Il Governo di Israele non ha fretta. Dopo che all’inizio del 2018 il municipio di Gerusalemme ha minacciato di esigere la tassa immobiliare sulle chiese, Netanyahu è apparso come l’uomo buono. Le chiese hanno chiuso i Luoghi Santi, il primo ministro ha interceduto e tutto sembrava essere alle spalle. Ma come sanno i cristiani di Gerusalemme, il progetto di fare della Città Santa una città di un solo colore non si ferma. Questo è il motivo per cui ora è Netanyahu stesso a promuovere una legge affinché le proprietà che le chiese hanno venduto o affittato ai civili possano essere espropriate.

Le chiese con immobili a Gerusalemme li affittano in modo che siano in uso e ottengano così un reddito con cui sostenere la comunità cristiana. Se perdono questi immobili e vengono costrette a pagare 150 milioni di dollari di tasse saranno economicamente asfissiate e non potranno aiutare i cristiani che vivono in città e che dipendono in larga misura dai loro sussidi.

Tra qualche anno potrebbe non esserci una locanda a Gerusalemme. A Betlemme ce ne sono poche e ci sono anche poche case cristiane. Dopo aver superato il check-point della tomba di Rachele, appare l’hotel di Bansky che c’è vicino al muro. In realtà è vuoto. È una pura denuncia. Le locande, gli hotel dei pellegrini, anche se ultimamente hanno avuto un certo aumento di presenze, non sono tornate ad avere l’attività che hanno registrato 20 anni fa, prima che Betlemme fosse isolata.

E le case cristiane sono rimaste una minoranza nel triangolo (Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour) dove pochi decenni fa il cristianesimo era ancora maggioranza. In queste tre città viveva la metà dei battezzati della Cisgiordania. A Betlemme l’emigrazione dei cristiani ha accelerato negli ultimi anni dopo la costruzione del muro, e sono solo il 12% della popolazione. E almeno un terzo ha intenzione di andarsene. “I cristiani cercano una vita migliore e la trovano facilmente in America Latina o negli Stati Uniti”, aggiunge Suhail Daibes. A Betlemme la disoccupazione è del 30% e pesa molto la restrizione dei permessi per raggiungere Gerusalemme.

“La nostra fede viene messa alla prova. Ma non è una questione di numeri, è una questione di sviluppo. Ora siamo meno di cento anni fa, ma contiamo di più”. Suhail Daibes parla accanto alla grotta della Natività: “Quelli per cui la Basilica diventa qualcosa di tradizionale, una consuetudine, finiscono per andarsene”. Suhail lo evidenzia chiaramente, a Natale non nasce una consuetudine, non nasce una cristianità, nasce un cristiano, il primo cristiano. Ecco perché continua a stare a Betlemme.