Il rattoppo della manovra 2019 è stato affannosamente imbastito alla vigilia di Natale e riceverà gli ultimi colpi d’ago alla Camera giusto in tempo per non portare il bilancio italiano in esercizio provvisorio. L’esito non sta soddisfacendo nessuno: neppure Lega e M5s. Le due forze di governo stanno faticando all’estremo per difendere come “piccola vittoria” la rimodulazione del deficit imposta dalla Ue: un “taglia e cuci” frenetico, che ha ulteriormente depotenziato spunti di politica economica già incerti e discussi (il “reddito di cittadinanza” e “quota 100” per le pensioni). 



Sembra negativo, per la maggioranza, anche il saldo emerso sul terreno più squisitamente politico. Lo spirito provocatorio verso l’establishment Ue, implicito nella manovra gialloverde, è stato dapprima contrastato da Bruxelles con l’apertura di una procedura d’infrazione ed è stato infine assorbito in un compromesso “non alla pari” suggerito ai poteri forti europei più dalla momentanea crisi dei gilets jaunes in Francia che dalla credibilità propria del governo di Roma. Sul versante interno, d’altronde, il caos procedurale che ha accompagnato la riscrittura parlamentare della manovra (un singolo maxi-emendamento blindato dalla fiducia) non ha certo promosso sul piano istituzionale la maggioranza “antagonista” emersa dal voto.



Mentre sui media si accavallano le stime sulle perdite derivanti dai mesi di guerra di trincea fra Palazzo Chigi e Bruxelles (lo spread è comunque tuttora cento punti più alto di quello che il governo Conte ha ereditato), si confermano come veri e propri “errori blu” i due punti individuati da subito come deboli e azzardati nello schema di manovra.

Il primo è la decisione di concentrare la poca flessibilità disponibile sul reddito di cittadinanza senza una progettualità minima capace di reggere il confronto sia presso il sistema-Paese sia presso le autorità Ue. La manovra è stata letta pressoché da tutti come meramente assistenziale, monopolizzata da elementari esigenze post-elettorali di M5s e lontana dalla priorità di una ripresa sostenibile (ad esempio con stimoli fiscali mirati sul sistema manifatturiero).



Il secondo handicap è apparso immediatamente l’assenza di impegni anche minimi sul fonte della riduzione del debito: e non è affatto un caso che la Ue — già politicamente ostile al nuovo governo sovranista italiano — abbia potuto ritorcere contro Roma il più delicato dei parametri di Maastricht, quello che vede l’Italia lontana dalle medie Ue e pericolosamente vicina alla Grecia. E il blocco del processo privatizzatorio (dalla seconda tranche delle Poste all’Ipo delle Fs) era una delle eredità più discusse e deboli del quinquennio di governo Pd, comunque incapace di avviare una politica di rientro dalla linea rossa di quota 130.

Alla loro prima manovra, i due co-premier Di Maio e Salvini hanno certamente perso un’occasione importante per segnalare la svolta effettiva che entrambi avevano promesso in campagna elettorale. Ripresa e debito: se il 2019 sarà un altro anno pericolosamente perduto, le responsabilità non potranno essere addossate soltanto alla congiuntura internazionale o allo strapotere della Ue franco-tedesca.