Parlare di pace è ormai anche fuori moda. E’ il litigio la forma del nostro tempo. Fortuna che ai papi di essere trendy non gli può importare di meno: da mezzo secolo dedicano il primo giorno dell’anno alla causa della pace in tutto il mondo. Una cosa seria, dunque, iniziata da Paolo VI nel ’68, al passo – sempre – con la storia, e non con le mode: era l’anno del “fate l’amore non fate la guerra”, che è invece giustappunto una geniale stupidaggine rimasta di moda per decenni.
Cinque anni prima, papa Roncalli aveva emanato la sua Pacem in terris, con cui la Chiesa del Concilio si faceva carico delle sorti di un mondo tenuto col fiato sospeso dalla crisi dei missili a Cuba e dal rischio di una guerra atomica. Imperversava ora la guerra del Vietnam, che ebbe contro i figli dei fiori a motivo dell’ideale anzidetto e i movimenti giovanili di massa a motivo della loro scelta di campo comunista marxista leninista filo sovietica o filocinese. Imperversava anche il conflitto Israele-Palestina, e altri, molti altri nel mondo. Con i suoi messaggi Paolo VI intese introdurre l’educazione permanente a un senso della pace non connesso a schieramenti ma a diritto, giustizia, riconciliazione, difesa della vita.
Negli anni 80, il riarmo nucleare con i missili Cruise e Pershing della Nato e gli SS20 dell’Urss schierati sul teatro europeo, alimentò lo sviluppo di un vasto e composito movimento pacifista, che premeva perché i missili fossero disinstallati, preferibilmente cominciando da quelli americani. Dalla guerra Iran-Iraq al Libano, all’Afganistan invaso da Breznev, alle Falkland, interi popoli si massacravano, ma di questo ci si preoccupava meno. Papa Wojtyla aprì un percorso che non fosse equivoco, cioè di parte, ma andasse alla radice. Il suo primo messaggio richiamò i fondamentali della pace: la verità, per prima cosa, poi la libertà, in particolare la libertà di coscienza e quella religiosa, perché “la pace è dono di Dio”, e occorre dunque “un cuore nuovo”. Successivamente dettagliò conseguenze storiche come l’abbattimento delle frontiere nord-sud ed est-ovest, lo sviluppo e la solidarietà, l’amore al creato.
Negli anni 90 e 2000, dominarono la scena le due guerre del Golfo condotte da Usa e alleati contro l’Iraq, le quali ridiedero linfa al pacifismo anti-nuovo ordine mondiale americano dell’ultima era Bush. Poi non si capì più contro chi stare, e il pacifismo finì, tra un Obama Nobel per la Pace, il terrorismo islamico che faceva più paura degli altri e il disordine come bussola impazzita in Medio Oriente. Sovranisti e populisti non alzano la bandiera arcobaleno: tirano giù la saracinesca. La loro pace è blindare i confini. Siria, Libia, Sudan, Centrafrica, Nigeria, e mille altri massacri, specie di civili e anche di bambini, in giro per il mondo… sono fatti loro.
La Chiesa demodè invece non dimentica nulla, si fa carico di tutto. Wojtyla degli ultimi anni associò la pace alla parola perdono, la più impossibile e scandalosa per l’uomo; Ratzinger ricominciò come il predecessore da verità, e poi persona, famiglia, aiuto ai poveri, educazione mentre insieme alle guerre imperversava il relativismo; Francesco prosegue indicando la via della fraternità, la necessità di uscire dall’indifferenza, il dovere di considerare i migranti che cercano pace. E arriva sino a dire, con il messaggio di quest’anno, che “la buona politica è al servizio della pace”.
Non si interrompe il fil-rouge dei messaggi per la pace dal ’68 a oggi. Esso potrebbe essere sommariamente indicato da due parole chiave: persona ed educazione. Persona, con tutte le esigenze di verità, giustizia, libertà, che la costituiscono e che la aprono ad altro da sé: perché protagonista della pace non può essere chi la pretende come esito della propria idea affermata. E poi educazione: è la parola che ricorre più di tutte le altre nei titoli stessi dei messaggi. Educazione della persona e quindi del popolo: a riconoscere la radice vera dell’ingiustizia e della guerra, a mettersi in gioco nell’esperienza quotidiana.
Così, dice Francesco, “offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo… E questa offerta è rivolta a tutti coloro che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana”.
Ecco, la pace, dice ancora Bergoglio, “è simile alla speranza di cui parlava Péguy: un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre”. Assecondare la nascita e lo sviluppo di questo fiore è la vera sfida che la politica ha davanti. I “vizi” della politica (“dovuti sia a inettitudine personale sia a storture nell’ambiente”) “indeboliscono l’ideale di una vera democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono a rischio la pace sociale”. Cioè calpestano quel fiore fragile. Viceversa, “nel rispetto della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità”. Due le priorità: promuovere la possibilità di un futuro per i giovani e promuovere una “fiducia dinamica” che apre all’altro, e cerca la collaborazione per il bene comune. Oggi più che mai “le nostre società necessitano di artigiani della pace, testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana”. Invito forte a lorsignori, certo. Ma anche a ciascuno di noi.