Sarà una nuova stagione programmatoria oppure lo stimolo degli investimenti esteri ad aiutare il Sud italiano a ridestare la sua lunga voglia di riscatto? Certamente la strada non potrà essere il protrarsi inerziale di un assistenzialismo stanco, del tutto incapace di generare capitale umano, di modernizzare le infrastrutture, di sollecitare una nuova imprenditorialità. Su questi si sono trovati tutti d’accordo, all’Università Bicocca di Milano, nel corso della presentazione di “Il risveglio del Mezzogiorno”, curato per Laterza da Giuseppe Coco e Amedeo Lepore: una review aggiornata sullo stato dell’arte delle politiche di sviluppo nell’area.

Il cuore di una tavola rotonda aperta da Andrea Boitani e dipanata da Claudio De Vincenti (fra l’altro ex ministro della Coesione sociale), Giovanna Iannantuoni e Mario Taccolini è stato un interrogativo complesso: l’intervento straordinario del dopoguerra (non il primo, dopo le leggi Nitti dell’inizio del ventesimo secolo) va archiviato nell’attivo o nel passivo della storia socioeconomica nazionale? Merita di essere ristudiato, forse addirittura rianimato, al di là di ogni pregiudizio?

È un fatto – ha sottolineato Boitani – che il processo di crescita-convergenza del Mezzogiorno rispetto agli standard economici italiani si sia arrestato. Gli anni del boom – gli stessi dell’intervento straordinario – hanno creato un incontestabile “balzo in avanti”, ma nel lungo periodo la saldatura fra il Sud e l’Italia “europea” è venuta meno. L’euro e quindi la crisi finanziaria hanno anzi sfidato e colpito un Sud già indebolito: dal gap di occupabilità, di produttività delle imprese, di efficienza della Pa, di solidità del sistema bancario, dalla fuga dei giovani migliori presso le università del nord o all’estero.

Certamente le risorse pubbliche non sono più quelle degli anni della Cassa per il Mezzogiorno, ma il problema emergente appare di natura qualitativa: quale impatto possono avere grandi progetti infrastrutturali – Tap è forse l’esempio più eclatante – se la spinta viene catturata e annullata dal reticolo dei veti politico-amministrativi locali? Non è meglio percorrere la via della garanzia pubblica all’investimento privato, alla nuova imprenditoria?

Il problema della fiscalità di vantaggio nell’area – ha lamentato De Vincenti – non sta tanto nello sforzo finanziario via via dispiegato dai governi centrali, quanto dalla sostanziale instabilità delle politiche di sviluppo per il Sud negli anni più recenti (al contrario della forte stabilità politica dell’Italia degli anni 50 e 60). Come già rilevato da Nitti un secolo fa, anche oggi vi sono aree del Sud in cui la pressione fiscale complessiva è superiore a quella di altre aree del Paese. “In quasi sedici decenni di unità nazionale, uno sforzo insistito per scuotere il Sud in direzione dello sviluppo è stato prodotto per un decennio in due occasioni”, ha detto De Vincenti, per il quale al Sud è mancata ancora l’occasione di “prendere il mano il proprio destino”. E la storia, d’altronde, non è mai una finestra definitivamente chiusa, non si ritrova mai su un binario morto.

Il Sud di Federico II era un protagonista geoeconomico, era laboratorio di civiltà e crocevia di investimenti e scambi: perché non può esserlo ora che la Via della Seta cinese è tracciata attraverso il Canale di Suez e i porti mediterranei? E poi la tanto discussa globalizzazione ha già “svegliato” il Sud dell’agroalimentare evoluto, del turismo dei flussi internazionali. E non c’è dubbio che per vincere del tutto la scommessa servano investimenti: quelli pubblici in infrastrutture e quelli privati in imprese. Ma serve soprattutto un “nuovo patto” ha detto Iannantuoni: un grande investimento del Sud su se stesso, mettendo a valore quel capitale umano “straordinario” che ha già consentito al Sud di diventare quello che vuol essere.