Quando ci lanciamo in qualcosa di grande, sia un amore, un’amicizia, una causa politica o un’opera sociale, quello che ci muove è sempre un desiderio. Questo desiderio, presto o tardi, si scontra col fatto che nella realtà c’è il male, esiste il male. È a quel punto che subentra la delusione, ossia la percezione che ciò in cui avevamo messo il cuore non sia stato in realtà all’altezza delle nostre aspettative. L’origine dello scoramento attuale dinnanzi alla politica o ad un’amicizia, come pure rispetto ad un matrimonio o ad un’iniziativa in cui ci eravamo coinvolti, è proprio l’intuizione di questo tradimento: noi avevamo investito tanto, affettivamente e umanamente, in un sogno, in un progetto, in una storia o in una comunità, e questo investimento si è mostrato sbagliato, illusorio. Ci sentiamo feriti e arrabbiati, se non addirittura soli o tristi. A volte in cerca di rivincita, più facilmente disinteressati.
È a questo punto che ci viene in soccorso il Carnevale. Fin dall’epoca precristiana, la festa del Carnevale rappresenta la possibilità di mettere in discussione o sovvertire per un certo periodo l’ordine costituito. Per alcuni giorni le maschere ci permettono di essere e di interpretare chi vogliamo: ogni nostro desiderio è esaudito e niente, finalmente, sembra più poterci spaventare o tradire.
Il punto è che un gioco è bello finché dura poco. Infatti tutte le volte che i nostri desideri si esaudiscono, che la nostra parte politica vince le elezioni o che la nostra relazione funziona, scopriamo in breve tempo quanto una tale realizzazione fosse anch’essa troppo piccina per il cuore. Il Carnevale, insomma, mette in evidenza che il problema della vita è il desiderio: noi entriamo nella realtà non con un desiderio, bensì con una speranza, con l’illusione che una scelta politica o affettiva, che l’appartenenza ad una comunità o l’impegno in un’opera ci “salvi”, ovvero ci risolva — e forse ci risparmi — la fatica della vita. Cerchiamo di risolvere l’esistenza piuttosto che viverla e ogni decisione diventa, in quest’ottica, questione di vita o di morte. Preoccupati di interpretare Balanzone o Pulcinella, di far trionfare questo o quell’altro progetto politico, ci dimentichiamo della natura e dell’ampiezza del desiderio del nostro cuore. E tutto ciò che accade, e che dovrebbe ridestarci, diventa dunque fattore di fastidio, di risentimento, di obiezione al successo del nostro disegno sulle cose, sulla Chiesa o sulla società.
È per questo che, nel cristianesimo, dopo il Carnevale c’è la Quaresima, il tempo in cui ognuno rimette a tema sé. Perché senza amore a sé, senza passione alla propria strada e al proprio cammino, può succedere qualunque cosa, può esserci posta davanti qualsiasi occasione, ma finiremo per pretendere sempre che tutto attorno cambi, che le persone cambino, mentre l’io sta lì fermo, rigido e inchiodato, in un fortino che ci si ostina a chiamare esperienza, ma che invece è solo la forma concreta del terrore che l’esistenza, la promessa che essa porta, possa rivelarsi mendace, ci tradisca. Il Carnevale, lungi dall’essere mero folklore, è sfida al nostro desiderio: puoi essere chi vuoi nella vita, ma non puoi sperare che quello che riuscirai ad essere o a fare ti risolva il Mistero dell’esistenza. E chi credeva che fossero solo carri e maschere, anche questa volta, si trova davanti un’incredibile e inaudita proposta: vivere con così tanta verità la sfida del Carnevale da non desiderare altro che presto venga, che presto accada, il Mercoledì delle Ceneri.