Non è affatto un Sud lontano – inesorabilmente “diverso” – quello con cui ha voluto mettersi in relazione “Sussidiarietà e… giovani al Sud”, dodicesimo Rapporto annuale della Fondazione per la Sussidiarietà. La “questione meridionale” nel 2018 esiste, ma non è più quella raccontata e codificata dai meridionalisti del secolo scorso, annota subito nell’introduzione Giorgio Vittadini. Rivisitare il Sud oggi (lo ha fatto un pool di economisti e statistici coordinato da Alberto Brugnoli e Paola Garrone) è invece un buon modo per interrogarsi su di un sistema-Paese con cui ormai l’area meridionale condivide molto: anche, talvolta, la tendenza ad accettare passivamente cliché, a non raccontarsi in modo corretto, sfidante. Né è banale interrogarsi sul Sud guardando all’intero Paese alla vigilia di una scadenza elettorale: per questo la prima lettura pubblica del Rapporto – dopodomani a Bari – ha chiamato a confronto diretto leader di tutte le forze politiche. E’ un momento in cui al Sud – case-history italiano – la sussidiarietà in azione torna a premere attivamente sulle istituzioni di governo.
La disoccupazione giovanile alta, più alta della media nazionale. Ma anche un Pil che per due anni è crescito più rapidamente rispetto al Centronord. E dentro questa cifra: più export, più imprese, più start-up. La ripresa di cui l’Azienda-Italia va a caccia da anni con estrema fatica va forse cercata con più impegno in un Sud che non ti aspetti?
Sul Mezzogiorno “c’è bisogno di cambiare metodo” suggerisce con determinazione il Rapporto: “L’immagine di un Sud tutto assistenzialismo e immobilismo clientelare non corrisponde alla realtà. Il desiderio di crescere e imboccare le vide dello sviluppo è presente in molti e diffusi sono i tentativi di costruzione sociale, culturale, economica da guardare con attenzione”. C’è un Sud non disomogeneo rispetto alle altre macro-aree del Paese: insidiato da tendenze demografiche deboli e in debito d’ossigeno sul fronte dell’education, cioé dei veri investimenti strutturali sui giovani e quindi sull’economia della conoscenza. Ma c’è anche il Sud “unico”: non in una presunta condizione di arretratezza immutabile, quanto nel suo status centrale di piattaforma europea nel Mediterraneo.
L’Italia “ben prima del federalismo fiscale deve affrontare quello del federalismo culturale”, accettando percorsi di sviluppo autonomi e originali. La globalizzazione ha sconvolto molte gerarchie. I flussi migratori dal Nord Africa – oggi problematici – potrebbero canalizzare in breve “capitali umani” da valorizzare anzitutto nella rete universitaria, facendoli reagire in nuovi distretti economici locali. La strategia cinese One Belt One Road – che suscita tanti interessi quante diffidenze – guarda al Sud italiano come a una direttrice principale. E non sono che due fra molti macrofenomeni che meritano una nuova griglia di catagorie d’analisi e d’intervento. Tre “s”: sviluppo, sostenibilità, sussidiarietà. E tre “m”: policy multisettore (dall’education alla ricerca, all’impresa); multiattore (pubblico, privato, sussidiario); multiscala (dal locale al sovranazionale). Con una premessa: “La fiducia precede il Pil e lo determina, probabilmente ancora più di quanto i modelli economici e i dati rilevati generalmente suggeriscano”.