La notizia che i monaci di Tibhirine saranno presto proclamati beati è arrivata in questi ultimi giorni quasi come un segno del Cielo. Alla metà degli anni novanta del secolo scorso questi monaci, come molti altri cristiani, scelsero di rimanere in Algeria senza parteggiare né per l’esercito algerino né per gli integralisti islamici nel duro scontro che insanguinò il paese in quel decennio e che portò alla morte di centinaia di migliaia di persone. Scelsero quindi di restare col popolo, a maggioranza islamica, e di condividerne il martirio. Nel cristianesimo il martirio è proprio questa scelta di rimanere, di non desistere, quando tutti scappano, quando ci sarebbero ottime ragioni per andarsene. 

Che cosa significa e che senso ha questo rimanere? Quando nella Chiesa costantiniana il martirio come esperienza ricorrente venne meno a causa della fine delle persecuzioni, esso fu soppiantato — nella sua radicalità — proprio dal monachesimo, una forma di vita nata per vivere la solitudine, il rapporto con sé, totalmente catturati da Cristo. Il monaco infatti, come il martire, fa una così profonda esperienza della propria umanità da non desiderare altro che tenere lo sguardo e il cuore fissi in Cristo. La parola solitudine descrive bene questa avventura del cuore: il martire è un uomo che continua ad attendere, che continua ad aderire alla verità del proprio suolo (da cui la parola solitudine) perseverando nel proprio turno di guardia alla porta del proprio cuore. 

L’attesa del martire, però, non è l’attesa dell’uomo che ancora non ha conosciuto Dio: egli sa che il Verbo del Padre, proprio come venne la prima volta, continua a venire, non cambia metodo. Martire non è colui che muore per la divinità, ma chi continua ad aspettare Cristo anche a costo di dover morire, di dover sacrificare se stesso. È la fiducia nel fatto che Dio farà la prossima mossa a muovere il cuore di un martire: in questa fiducia ogni cosa che accade, anche il volto del proprio aguzzino, diventa amico, compagnia al desiderio definitivo del cuore. Dentro un amore che finisce, all’esperienza di un figlio che ci rifiuta o di un lavoro che ci fa fare una fatica inenarrabile, il martire è colui che resta dentro la circostanza in attesa certa di un cenno del Cielo, in attesa che Dio faccia la prossima mossa. Beatificare i monaci di Tibhirine significa dunque indicare un metodo per vivere qualunque complessità: non cercando di risolverla, né provando ad evitarla, bensì sfidando il Mistero con il proprio desiderio di vita e di bene, sfidandolo a darci un cenno, aspettando fermi e certi la Sua prossima mossa. 

Troppe volte nella realtà, dalla politica agli affetti, dall’amicizia al lavoro, ci muoviamo cercando di evitare le cose o nel tentativo di risolverle: il metodo di Tibhirine ci insegna, al contrario, che l’unica strada per vivere ogni circostanza — anche il dolore e la morte — è questo permanere dentro la realtà in attesa di Cristo. Nella logica efficientista del nostro tempo sembra troppo poco, sembra un di meno, mentre invece chiunque può sperimentare che un’attesa del genere, a volte drammatica e tormentata fino alle lacrime, lo cambia e gli restituisce tutta la realtà come amica, come alleata del proprio cammino umano verso la felicità. Christian de Chergé, priore degli “Uomini di Dio”, arrivò a definire il suo possibile carnefice come “l’amico dell’ultimo istante”. Dopo anni di pianti e di silenzi, scoprire che il marito odiato, la moglia malsopportata, il capo crudele, il tumore che non passa o il politico fanfarone possano diventare “amici dell’ultimo istante” è il dono più grande e il miracolo più incredibile che possa capitare. Nell’attesa che il Cielo faccia la prima mossa, ogni cosa — perfino la morte — si trasforma in una tenerezza inevitabile per accedere alla vita. 

Non c’è rabbia o peccato, paura o inadeguatezza, che non possiamo scoprire come misericordia, come alleata nell’attesa del nostro cuore. È questo il tempo della persona, il tempo del martirio, dove si smette di cercare ciò che cambia per iniziare a far entrare ciò che ci cambia. E che ci può far sperimentare — proprio come a Gesù nel Getsemani — che la più grande vittoria è arrendersi al Mistero di un Padre che ci ama e che desidera per noi la vita nuova, la vita senza fine. Questa beatificazione è insomma l’indicazione potente di una strada stretta, una via in cui il protagonista è il povero: colui che sceglie di rimanere ricco solo della certezza che, qualunque cosa stia accadendo, Cristo sta per fare il Suo primo passo. Il passo decisivo, quello della vittoria.