Salario minimo, reddito di cittadinanza, servizio civile obbligatorio. La vetrina elettorale e’ comprensibilmente ricca ma pericolosamente confusa e nessuna forza politica sta resistendo alla tentazione di esporvi proposte ad hoc. Senza naturalmente dimenticare il “reddito d’inclusione”. che non è una promessa elettorale, ma un provvedimento reale che sta portando le prime erogazioni Inps a decine di migliaia di famiglie italiane sotto la soglia di povertà.

E’ evidente che un “disoccupato” è molto spesso “povero”: e sia un diciottenne che non ha mai avuto un lavoro sia un cinquantenne che lo ha perso sono entrambi “cittadini”, meritevoli di una corretta solidarietà civile sancita dalla Costituzione. Ed è un fatto che molte categorie di lavoratori – soprattutto nell’era della flessibilità – ritengano di essere “pagate poco o meno”. Anche il Jobs Act – nello sforzo di dare un nuovo ordine al mercato del lavoro – ha stabilito una distinzione strutturale fra “vecchi lavoratori” pienamente tutelati e “nuovi lavoratori” a tutele variabili anche se tendenzialmente crescenti.

Poiché tutti si presenteranno come “elettori” fra quattro settimane, non sorprende che i partiti facciano a gara nel lanciare proposte a maglie larghe e a slogan stretti: guardando a quante più fasce o nicchie di “società debole”, senza troppe preoccupazioni di coerenza politico-economica. Non è mancata, naturalmente, la proposta di aumento delle “pensioni minime”: forse utile a incentivare le uscite da imprese e Pa, ma in sé molto discutibile circa l’uso delle poche risorse pubbliche per sostenere l’occupazione giovanile in quantità e qualità.

Il filo conduttore rimane in ogni caso elementare: sussidiare a breve quanti più cittadini-elettori, o attraverso il bilanco pubblico o forzando le imprese a pagare veri o presunti “salari minimi”. Non è difficile scorgere tutti i rischi di fake politici insiti nel ritorno del reddito come “variabile indipendente”, sganciato dalle compatibilità finanziarie dello Stato o industriali dell’impresa.

I giovani, anzitutto, chiedono un posto di lavoro, non un sussidio di disoccupazione a breve, medio o lungo termine; neppure travestito da servizio civile obbligatorio (ma improvvisato). E anche a quei giovani cui forse non dispiacerebbe un modesto mantenimento pubblico, uno Stato degno di questo nome ha invece il dovere di proporre percorsi di formazione e di ingresso sul mercato del lavoro. Ha quindi l’obbligo di investire le risorse sull’education e sullo sviluppo di infrastrutture innovative sul mercato del lavoro (il Jobs Act le chiama “politiche attive”). E sia ai giovani disoccupati sia ai loro genitori che hanno perduto il lavoro, nel ventunesimo un Paese europeo del G7 deve anche offrire lo stimolo e il sostegno, laddove possibile, a tentare le strade del lavoro autonomo e dell’imprenditoria. E’ politicamente del tutto corretto ricomprendere in questo ambito – di politica del lavoro, ben diversa dall’assistenza – anche programmi a favore degli immigrati e quindi dell’integrazione “a valore aggiunto” per l’Azienda-Paese.

In un sistema-Paese approdato da tempo alla democrazia di mercato, il prezzo del lavoro lo stabiliscono al tavolo contrattuale le imprese e le organizzazioni sindacali (non per caso in Italia entrambe guardano con sfavore al ritorno per legge di “salari minimi” indifferenziati). Compito di Parlamento e governo resta sollecitare le parti sociali a riformare la contrattazione con una maggiore aderenza e apertura al mercato che cambia rapidamente, che diventa più articolato in singoli settori o nuove tipologie di imprese. Il mismatching che rende spesso inefficiente l’interfaccia fra scuola e lavoro, talora frena e ingessa la circolazione delle risorse umane sul mercato. Se non suona paradosso, la questione sembra ruotare sempre di più attorno al “salario massimo”: il compenso “corretto” per le reali competenze messe in gioco da un lavoratore; oppure il “salario complessivo” di investimenti formativi (è la fase-due delineata per “Industria 4.0”) e di welfare originale offerto da singole imprese. distretti, comparti.

Il contrasto alla povertà – non certo ultimo – resta una priorità di politica sociale. E’ quella cui ha guardato il governo Gentiloni nel varare le “carte Rei”, al termine di una lunga fase di contrazione assoluta del reddito disponibile per le famiglie. E’ una corretta misura d’emergenza, che non può tuttavia diventare pietra malferma di un’impossibile ricostruzione di un welfare statale pesante, novecentesco. La solidarietà civile di cui parla l’articolo 2 della Costituzione è oggi assai più quella dell’imprenditore che investe e assume, a fianco di quella di un Terzo Settore che raggiunge i bisogni delle persone in modi diversi rispetto alle imprese, ma con un’efficienza e un’efficacia che lo Stato non ha più da tempo.