“Contro la cultura: la letteratura per fortuna”: è il titolo intrigante di un libro appena uscito, scritto da Silvano Petrosino, uno studioso di filosofia, sempre capace di percorsi (e di lezioni) affascinanti. Se il titolo è intrigante, lo è ancor di più lo sviluppo che ritroviamo tra le pagine. Petrosino in sostanza oppone il concetto di cultura a quello di letteratura. O meglio, l’esperienza dell’una all’esperienza dell’altra. Cultura è un processo di sistematizzazione che mette le cose a posto, che traccia quadri d’assieme, che mette in scala i valori; scrive Petrosino che cultura “gratifica e consola”, perché si muove nell’orizzonte dell'”interessante”, a volte ricorrendo alla retorica delle iperboli sulla bellezza, sui valori artistici, sull’universalità dei capolavori. La cultura oggi ha assunto un aspetto che nobilita senza scomodare, in quanto resta sempre nell’ambito di un qualcosa di “già saputo” (i principi non negoziabili, i capolavori, la spiritualità “superiore”, i maestri del pensiero intoccabili per definizione). Per questo la cultura si presta benissimo a meccanismi di consumo, tant’è che spesso e volentieri si ricorre alla terminologia “consumi culturali”. Al contrario letteratura è un’esperienza che s’addentra su terreni inesplorati, ha una vocazione a terremotare lo status quo e a immettere inquietudine. La letteratura è sempre attraversata da un dramma. “Il sapere che la letteratura mobilita”, ha scritto Roland Barthes, “non è mai né assoluto né ultimo; la letteratura non dice che sa qualcosa, ma che sa di qualcosa”. Non lavora su certezze, ma su indizi.
È una sintesi schematica di un punto di vista, quello proposto da Petrosino, certamente stimolante e originale, che smaschera quella retorica che oggi troppo spesso si fa attorno all’idea di cultura. C’è tuttavia uno sviluppo di questo pensiero che è ancora più interessante e attuale e che viene suggerito da una citazione che si incontra nel libro. È un pensiero di Vladimir Nabokov, lo scrittore russo autore di Lolita. Nabokov dice che la cultura può trasformarsi in un esercizio di conformismo, cioè di ricerca di autoconferme all’interno di gruppi prestabiliti di appartenenza. Si frequentano terreni famigliari, si gira attorno a concetti condivisi a priori, ci si confronta tra simili in dialettiche fittizie, che sono pura apparenza. La tendenza non riguarda solo la cultura, ma anche il modello che il potere sta mettendo in atto per favorire aggregazioni. È naturalmente un potere dalla fisionomia diversa rispetto a quella che siamo abituati ad assegnare alle entità richiamate da questa parola; ha la forma affascinante e conquistatrice di quel “general intellect” che propone progresso e innovazione e quindi giustamente piace e raccoglie inevitabilmente consenso. Recentemente, seguendo le logiche del “general intellect”, sia Facebook che Instagram hanno modificato il proprio algoritmo, per rassicurare l’utente privilegiando le relazioni con la comunità di riferimento. Il risultato è che i social network favoriscono arroccamenti in comunità omogenee, dentro orizzonti dove non si hanno più confronti con il diverso.
Quando poi però, inevitabilmente, ci si affaccia sulla vita reale, il diverso ricompare e finisce con l’essere visto, in quanto ignoto, in quanto non conosciuto, come un nemico. Gli esiti sociali di simili dinamiche, di questi tempi, sono purtroppo all’ordine del giorno.
Se ci pensiamo, questo è l’ultimo sviluppo, il nuovo stadio di quel conformismo evocato da Nabokov come rischio per la cultura. Ecco perché ha davvero ragione Petrosino: oggi abbiamo bisogno di letteratura, di quella sua energia (una “grazia” la definisce Derrida) che sconfina, che si apre sul diverso e sul nuovo, che mobilita un sapere inquieto e umanamente affascinante.