In campagna elettorale si è tornati a parlare – troppo poco per la verità – degli investimenti pubblici che sono necessari nel nostro paese, ma non della proprietà di servizi come la rete autostradale, i trasporti, l’elettricità, le telecomunicazioni, l’acqua, i porti, gli aeroporti, le linee aeree e quant’altro. In Gran Bretagna, patria del liberismo, sta facendo molto discutere la possibilità di far tornare allo Stato la proprietà e la gestione dei principali servizi pubblici, dopo aver constatato che la loro privatizzazione non ha portato né a una diminuzione delle tariffe per gli utenti, né a investimenti per il loro sviluppo. La crisi del 1929 era stata superata con gli interventi di stampo keynesiano del presidente Franklin Delano Roosevelt che continuava a ripetere a banchieri d’affari come Morgan, letteralmente furibondi, che stava cercando di salvare il capitalismo.
Il dopo guerra fu caratterizzato da una ricostruzione improntata a una economia mista pubblico-privato anche in Italia. Negli anni Settanta e Ottanta, anche con lo scopo di risolvere le inefficienze dell’apparato statale, dalle due sponde dell’Atlantico partì la ventata liberista nell’economia che si consolidò sotto la guida di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Si andò alla riscoperta del libero mercato della dottrina neoclassica: il mercato che alla lunga si aggiusta sempre e da solo, senza alcun intervento statale come predicava, fra gli altri, Milton Friedman, il “teorico della scuola di Chicago”, braccio economico” del dittatore cileno Augusto Pinochet. I presupposti di fondo erano che la società non esiste, come sintetizzava poi politicamente la signora Thatcher, ma c’è solo un aggregato di individui il cui comportamento è regolato dal principio della massimizzazione del profitto.
Tuttavia, come hanno dimostrato premi Nobel come Joseph Stiglitz o Paul Krugman, questa teoria, favorita dalla scomparsa della paura dello statalismo comunista alla fine della “guerra fredda”, dalla conversione acritica della sinistra occidentale al neoliberismo, dall’abolizione di ogni regolazione di mercati e spostamenti di capitali ha generato la crisi finanziaria del 2007-2008. E questa crisi ha creato diseguaglianze sociali e di reddito che erano impensabili se non ai tempi medioevali o della prima industrializzazione selvaggia, come afferma Thomas Piketty, il grande censore delle diseguaglianze sociali vergognose oggi esistenti.
Neanche questa devastante crisi economica e finanziaria ha spinto al ripensament o quelle vestali dell’ultraliberismo che, dopo aver predicato all’inizio della Seconda Repubblica, la svendita di floride imprese pubbliche, deprecava che nel 2 005 ci fossero pochi derivati. Superata l’ondata di indignazione popolare di que gli anni, l’ideologia della Unione Europea non si è scostata dall’equazione “mercato uguale ordoliberismo” e il trumpismo ha riportato in auge l’idea di un mercato mondiale dominato dalla finanza senza regole e senza vincoli a tutela dell’ambiente o di qualsiasi altro genere. Eppure, dopo qualche anno, qualcosa si muove almeno a riguardo di uno dei dogmi dell’ordoliberismo: le privatizzazioni indiscriminate.
Proprio in Gran Bretagna, patria delle privatizzazioni, è in corso un grande dibattito, favorito probabil mente anche dall’avanzata del Labour Party di Jeremy Corbyn, ma condiviso da mo lti economisti e politici che nel mondo anglosassone si distinguono per il loro pragmatismo e si collocano nella cosiddetta area dei “liberal”. Che cosa emerge da questo dibattito? Che affidare i servizi pubblici alle imprese private non è necessariamente una soluzione che faccia bene alla qualità dei servizi, alle tariffe pagate dai consumatori e faccia risparmiare le casse dello Stato. Se qualche privatizzazione ha funzionato, come nelle telecomunicazioni, in altre ha fallito. Per questo, con grande realismo, si ripensa a rinazionalizzare nei settori dove non ci sono stati i vantaggi sperati per produttività, occupazione e appunto tariffe.
Rispunta perciò la proposta del ritorno a un’economia mista, e sostanzialmente a un maggior intervento dello Stato nell’economia dopo la ventata delle privatizzazioni selvagge e indiscriminate. Non si vuole abolire in modo antistorico il mercato moderno, ma si afferma che ha bisogno di regolamenti precisi e anche aggiornati, perché il fine dell’economia è il benessere delle persone, non quello dei bilanci.
Resta poi fermo che lo Stato, come entità creata dagli uomini, sia in forma nazi onale che in nuova forma sovranazionale, ha nei confronti delle imprese e delle persone una funzione sussidiaria: deve arrivare là dove il privato non può o non riesce ad arrivare. Ma resta il fatto che, in determinate circostante, evitando qualsiasi forma di assistenzialismo, lo Stato può diventare un “motore” importante dello sviluppo e può essere la fonte di investi menti che rifanno girare l’economia.
Mariana Mazzucato, una grande economista postkeynesiana, consigliere della banca d’Inghilterra, scrive nel suo libro Lo Stato innovatore: “Chi è l’imprenditor e più audace? Chi finanzia la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie? Qual è il motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, la farmaceutica? Lo Stato”. In Italia il fallimento delle privatizzazioni anni Novanta è ancora più clamorosamente evidente che in Gran Bretagna (eccetto per le famiglie ricche che ne hanno guadagnato): allora perché nel dibattito attuale in campagna elettorale invece di promettere “panem et circenses” non ci si confronta su questo tema? Forse perché per fare politica non basta urlare e auto proclamarsi demiurghi. In politica ci vuole visione. E il coraggio delle scelte.