Nicodemo è un uomo curioso e la curiosità è condizione prima di ogni vera conoscenza. E’ antidoto alla nausea: “La cura per la noia è la curiosità. Non ci sono cure per la curiosità” (D. Parker). E’ un giudeo, Nicodemo, dunque è una persona prevenuta nei confronti di Cristo. Si salva per l’onestà intellettuale: più che sentire-parlare di Cristo, vuole incontrare Cristo di persona, convinto com’è che sono gli incontri, più che i sentito-dire, a ribaltare la vita: “‘Venite e vedrete’ dice spesso Gesù. Lui almeno è andato a vedere” (E. Carrère). 

E, in diretta, gli è stato svelato l’elisir della fede cristiana: noi, all’appuntamento, siamo arrivati per secondi. Dio, giocando d’anticipo, ci ha vinti, giungendo anzitempo: “Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Il cristianesimo – Cristo, a Nicodemo, certe cose gliele ripete, non sono così facili d’afferrare al volo – è la risposta ad un invito: Dio chiama, all’uomo spetterà una risposta. Se vorrà rispondere, se gli andrà di rispondere, se gli parrà cosa buona e giusta fare in modo che una chiamata non rimanga senza risposta. Il cristianesimo è tutto qui: Dio chiama, l’uomo risponde. Invertire i termini – l’uomo chiama, Dio risponde – è fare del cristianesimo un gioco. E’ la goduria di Lucifero: “Non ti sente, forse si è addormentato: chiamalo più forte, dai!” A Satana, l’angelo della confusione, va ricordato che non c’è più sordo di chi non vuol sentire.

Di chi non vorrà accettare, per nessuna ragione al mondo, che l’iniziativa sia di Dio, a nostro favore: “(Dio) non ha mandato il Figlio per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui”. A rigor di logica, dunque, se il Padre ha mandato il Figlio per salvarci, rifiutarlo è scegliersi la dannazione: “Chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto (in Lui)”. E’ roba così semplice d’apparire fanciulla nella sua comprensione: eppure, per un tristo gioco di sostituzioni, s’è sparsa la voce che sia Dio a condannarci: “Ci penserà Dio a punirti!” si sente dire. E’ falsificazione dell’immagine divina: la penalità è l’incapacità di accettare che Dio ci voglia salvare a tutti i costi, costi quel che costi. “Salvare” – “Perché il mondo sia salvato” – è verbo di racimolo: dopo la trebbiatura, si attraversa la campagna perché non accada che qualche chicco di grano vada perduto. L’azione è meticolosa, è gesto di sentinella: si spostano gli armadi, si alza il tappeto, si fa luce nello sgabuzzino. Nulla, di ciò che esiste, andrà perduto. E’ per questo che il Figlio ha intrapreso la carriera di uomo: perché, se l’uomo accetta, tutta la sua vita venga salvata dalla misericordia. Peccato compreso: la vergogna, in quel caso, è anticipo di risurrezione. Dalle stalle alle stelle: il contrario del viaggio sponsorizzato dal principe-delle-mosche.

E’ materia di rilassatezza il cristianesimo: “Lascia fare a Dio!” Oggi, a fiutare l’ansia del cristiano, pare proprio che fare cose per-Dio sia il mestiere più facile da compiersi: fioretti, processioni, rinunce e digiuni. Lasciare che Dio faccia per-noi è il difficile dell’andargli appresso, della sequela cristiana: è accettare che qualcuno abbia già pensato per me prima ancora che io abbia avvertito bisogno di un qualcosa di cui necessito. E’, alla fine, riconoscersi creature, un gradino al di sotto del creatore: ammettere che, in materia di restauro, non c’è restauratore più fidato di chi quell’opera l’ha creata dal nulla. Rimetterci mano, ricrearla, è un gioco da dilettanti, gesto amoroso, calcolo preventivato: “Chi fa la verità, viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le opere sono state fatte in Dio” (Gv 3,14-21). 

I pipistrelli mal sopportano la luce: Satana è un pipistrello. Cristo, l’uomo con la più alta concentrazione di luce cucita addosso, è ansia per i pipistrelli. Satana odia la luce, non sopporta Cristo. Per questo agisce incappucciato, di notte, evita la firma, farfuglia. Parla dieci lingue ma non riesce ad amare in nessuna lingua.