E’ proprio vero che ci sono più cose in cielo e in terra che in tutte le nostre previsioni. Da Firenze, ieri, abbiamo appreso una bella notizia: il senegalese musulmano Aliou Diene ha perdonato l’assassino del fratello Idy, 54enne ambulante che cercava di vendere un ombrello: “Compio il mio dovere di musulmano”. Lo ha fatto davanti a 15mila manifestanti — senegalesi, italiani, cristiani, musulmani, non credenti — in piazza per dire no alla xenofobia e invocare, come ha detto l’imam Izzedim Elzir, “un nuovo rapporto di vicinanza fra il nostro popolo, che è uno soltanto, volto alla pace e alla convivenza civile”. 

Questo perdono ha un valore religioso, umano e anche politico, tanto più all’indomani di una campagna elettorale che ha spinto molto sulla paura dell’immigrazione come fattore divisivo, mentre il presidente dei vescovi italiani, card. Bassetti, chiedeva di “ricostruire la speranza ricucire il paese, pacificare la società”. Solo poco tempo fa, l’uccisione di una ragazza di Macerata ad opera di spacciatori nigeriani aveva provocato — ricorderete — la sparatoria di un esagitato contro giovani di colore e fatto schizzare dallo 0,6 per cento al 20 per cento i voti per la Lega di Salvini.

Stiamo ora a vedere, sapendo che il buonismo non tira più, se i commentatori dei grandi media crederanno alla sincerità del musulmano senegalese, e come valuteranno il suo gesto.

Certo, per via del perdono, s’è preso pesci in faccia il buon vecchio parroco di Cisterna di Latina al funerale delle piccole Alessia e Martina Capasso: fischi e brontolii di protesta da parte di un certo numero di fedeli, quando ha chiesto di pregare per il padre delle due ragazzine, Luigi, che aveva ammazzato entrambe, ferito gravemente la moglie Antonietta nel tentativo di ammazzarla, e infine ammazzato se stesso. Don Livio Fabiani, 50 anni di messa e di mani impastate nelle gioie e nei dolori del popolo,  non è affatto buonista: “Quando vedo una bara bianca, un senso di ribellione mi assale”.  Ma c’è un fatto, con cui risponde agli scandalizzati: “Scusate, ma la famiglia ha perdonato”.

Un fatto. Ma dalla prima del Corsera, Massimo Gramellini, avvertito della circostanza  che il buonismo non funziona più, asserisce di non credere possibile il perdono immediato. L’uomo ha i suoi limiti, osserva, e per arrivare al perdono occorre che sia trascorso tutto il tempo del dolore, sino a che la ferita si sia richiusa e cicatrizzata.

Non ne farei questione di tempo. Perché, diciamola tutta senza girarci intorno e senza indorare la pillola: il perdono è impossibile. La misericordia è impossibile, e infatti d’istinto la sentiamo ingiusta. Quella roba lì che accade una volta fatta la cicatrice non è il perdono. E’ un “va be’, ormai è acqua passata, dimentichiamoci, inutile andare a rivangare”, o giù di lì.

Conviene allora, come sempre, partire non da un ragionamento circa il fatto se sia giusto e possibile perdonare o se l’offeso non abbia piuttosto diritto ad avere giustizia, ma dalla propria esperienza. La quale, in ogni uomo, gramelliniano o no, porta sempre a galla il bisogno di essere egli stesso perdonato. Chi ha fatto l’esperienza di essere perdonato, ne conserva indelebile il ricordo come di momenti di più intensa felicità e pace. Il desiderio del perdono è la cosa più umana che possa esistere, è il bisogno di un abbraccio che ci dica: “tu sei di più del tuo limite, del tuo errore, della tua meschina o schifosa nefandezza”. E’ cioè il bisogno di una presenza che non ti deprime ma ti afferma.

Se guardiamo i fatti con la coscienza di questo bisogno umanissimo e radicale, una  crepa nel cinismo e nello scetticismo si apre, e un po’ di luce ci aiuta a vedere. Per vedere davvero abbiamo bisogno di questa, sì, ferita, come Galileo del cannocchiale per osservare le lune di Giove.

Margherita Coletta, ai funerali del marito militare morto nella strage di Nassiriya nel 2003, ha letto al funerale, subito, il vangelo di Matteo: “Amate i vostri nemici”. Carolina di Sovico, Brianza, mamma del 18enne Lorenzo ucciso da un ecuadoregno: “Un cammino di fede mi ha portato al perdono immediato: non ci ho pensato su”. In India, l’anziana madre del sacerdote ucciso dal sacrista ha perdonato l’uccisore e fatto visita alla sua famiglia. Negli States il padre musulmano di una ragazzo derubato e ucciso mentre consegnava pizze ha dichiarato in aula durante il processo che il perdono è il più grande dono di carità dell’islam ed ha abbracciato, tra la meraviglia generale, l’assassino, suggerendogli: “Quando esci di prigione, fai buone azioni”. Uscirà fra 31 anni: il perdono non è neanche un’amnistia.

Impossibile, il perdono. Ma accade e si mostra all’osservazione. Come le lune di Giove. A questo punto l’alternativa è se comportarsi come Galileo o come Cesare Cremonini (non il cantautore, ma l’aristotelico del ‘600). I due sono da Cosimo de Medici e lo scienziato pisano vuole che il signore provi il suo cannocchiale per fargli vedere appunto “i satelliti medicei” attorno al pianeta maggiore. Cremonini difende il suo a-priori: “Prima di far uso del vostro occhiale, signor Galilei, gradiremmo la cortesia di una disputa sul tema se questi pianeti possano realmente esistere”. Rispose Galileo: “Permettetemi un consiglio: cominciate col dare un’occhiata. Vi convincerete subito”. Ma quell’altro: “Quel mirare per quegli occhiali mi imbalordisce la testa: basta, non ne voglio sapere altro”.

Ecco, anche ben più che le lune di Giove, il perdono è la vertigine del mistero. E Gram…, pardòn, Cremonini non sa cosa si perde.