Il primo atto politico-economico della nuova legislatura è stato compiuto dalle parti sociali. L’accordo sulla riforma dei contratti di lavoro è stato siglato da Confindustria e Cgil-Cisl-Uil quattro giorni dopo il voto: attendeva da nove anni una firma effettiva e finale da parte del sindacato di Susanna Camusso.
Il contratto nazionale resta, ma il nuovo modello apre reali spazi di flessibilità al secondo livello: aziende e distretti territoriali. Al primo livello rimane riservata la fissazione del “trattamento economico minimo” e del “trattamento economico complessivo”: con maggiore attenzione, in quest’ultimo, a tutte le componenti di welfare giudicate diritto di tutti i lavoratori contrattualizzati. Gli accordi di secondo livello vengono invece lanciati verso un orizzonte vasto e innovativo: quello delle componenti di compenso legate alla produttività. Queste ultime, più che in linea di principio, vengono lasciate alla negoziazione autonoma fra le parti sociali direttamente coinvolte nella sfida quotidiana della competitività di un’impresa o di una comunità di imprese.
Un’economia sociale di mercato evoluta come quella italiana, seconda manifattura della Ue, attendeva questa svolta: reale ed efficace, ma ad un tempo equilibrata. Un’intesa che punta definitivamente al superamento di una contrattazione rigida e accentrata si pone sull’altro versante come barriera esplicita al “dumping contrattuale”: agli accordi selvaggi, creati e distrutti senza regole in settori o territori da un’interpretazione liberista delle relazioni sul mercato del lavoro.
Nella nuova cornice delle relazioni sindacali entrambe le parti sociali hanno voluto confermare e rivalorizzare il loro ruolo. La responsabilizzazione su livelli “misurabili” di rappresentatività da parte delle singole organizzazioni ai tavoli di contrattazione è stata estesa anche alle imprese. Ed è proprio questo impegno congiunto – richiamo diretto alla Costituzione economica – ad assumere un profilo squisitamente politico all’indomani del 4 marzo.
Confindustria e sindacati sono stati simbolici, negli ultimi quattro anni, come obiettivi della logica di “rottamazione dei corpi intermedi”. Premute, da un lato, dalla globalizzazione dell’economia e dal suo cambiamento accelerato, le strutture associative di datori e prestatori di lavoro si sono ritrovate nel mirino anche di un certo neo-statalismo, tendenzialmente insofferente dei ruoli di elaborazione e mediazione sui confini più delicati fra economia e società.
All’indomani di un esito elettorale che ha sancito frammentazioni profonde nel sistema-Paese, ampie proteste verso l’azione delle istituzioni pubbliche e un’impasse oggettiva nella governance democratica, il rimettersi en marche da parte delle associazioni “dei produttori” è una buona notizia.