Durante i dialoghi avuti in questo periodo, mi è capitato spesso di trovare interlocutori perplessi di fronte al richiamo al bene comune come criterio per affrontare anche l’impegno elettorale. Come si trovassero di fronte a un fervorino dei “buoni sentimenti”, un po’ generico e astratto. Vorrei documentare, al contrario, che ricentrare la riflessione sul bene comune è la vera priorità in questo frangente storico e che ciò ha implicazioni immediate tutt’altro che astratte. Anche sul voto.

Siamo in una fase critica della nostra storia, in un momento di generale declino economico, sociale, istituzionale che dura da più di vent’anni. Una fase, come sostengono molti osservatori, paragonabile a quella del secondo dopoguerra in cui il Paese distrutto doveva decidere quali strumenti darsi per costruire il suo futuro. Ciò che avvenne lo sappiamo: le diverse anime del Paese furono in grado di accordarsi, di rinunciare a qualche loro interesse per poter dare un contributo alla costruzione comune. Un esempio rimasto emblematico nell’immaginario è quello in cui Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi andarono insieme a Matera e nel Mezzogiorno e di fronte alla disumanità con cui vivevano le persone, decisero che quella situazione non poteva continuare e da lì concordarono una serie di investimenti.

Nella situazione attuale c’è un’aggravante, non abbastanza considerata nei dibattiti che si sono sentiti in questi giorni. Come disse anni fa Enrico Letta, il nostro non è più “un Paese grande in un mondo piccolo, ma un Paese piccolo in un mondo grande”. La variabile “internazionale”, che implica non solo la necessità di concepire il Paese in relazione con il resto del mondo, ma anche quella di essere più uniti internamente, di fare finalmente più “sistema” per poter reggere le pressioni esterne.

A un certo punto, con la Seconda Repubblica, ha cominciato ad affermarsi un tarlo disgregante: gli “altri” sono sempre il male assoluto. Non c’è nulla nell’altro che possa essere utile al mio bene. Perché si è iniziato a fare così fatica a identificare e condividere un progetto per il bene comune? Credo che ci siamo dimenticati di quelle che sono state le chiavi del successo nella nostra storia passata. Il bene comune nel nostro Paese è stato costruito dalla capacità di leggere la realtà concreta, di valorizzarla (sussidiarietà) e di negoziare un compromesso tra interessi diversi. Il bene comune nasce come capacità di attenzione alla realtà, di comprensione dei particolari.

Si pensi a come è nata la formazione professionale dei Salesiani: don Bosco non aveva certo in mente un progetto come quello che negli anni si è realizzato, ma aveva intorno dei ragazzi sbandati e piano piano, cercando di aiutarli, ha creato una realtà che ancora adesso è un modello formativo fondamentale.

Lo stesso ha fatto don Gnocchi: ha tenuto gli occhi e il cuore aperti su una tragica emergenza di quel momento storico, quella dei mutilatini della Seconda guerra mondiale e dei disabili e ha fondato un centro di cura e riabilitazione. Anche la Compagnia delle opere è nata così. Mentre il Movimento popolare elaborava soluzioni teoriche ai bisogni sociali, don Giussani ci spinse ad aiutare i nostri amici che facevano il vino ad Alcamo, nell’idea che soluzioni di bene comune non sarebbero mai davvero nate senza mettere mano a problematiche concrete. Ciò che poi precisò nell’intervento all’Assemblea della Democrazia Cristiana riunita ad Assago nel 1987: senza riferimento alle situazioni reali del Paese, la politica finisce con lo strumentalizzare il desiderio delle persone e la realtà dei corpi intermedi per soli fini elettorali. Senza concepirsi al servizio di punti particolari, la politica resta solo un discorso autoreferenziale. Una cosa è senz’altro stato un peccato perdere della Prima Repubblica: la politica veniva fatta innanzitutto nei territori, i politici spendevano tempo a girare, guardare, comprendere i bisogni.

Il bene comune non è un’idea astratta, ma una prospettiva generale mutuata da esempi particolari che funzionano. Non si tratta però del meccanico “esportare modelli”, ma del fatto che politiche efficaci siano quelle che tengono in conto ciò che c’è e che funziona. Prescindendo dalla conoscenza dei particolari concreti, il bene comune diventa un’astrazione ideologica, magari anche in grado di proporre grandi progetti, ma che nasceranno senza tenere in considerazione come vivono le persone, di che cosa abbiano bisogno e di ciò a cui aspirano. Senza disponibilità a entrare nel merito, a mettere le mani in pasta, a rischiare di sbagliare, non c’è creatività, non c’è capacità di individuare soluzioni nuove a problemi complessi, come quelli che deve affrontare la società contemporanea.

Tempo fa l’assessore alle Politiche sociali di una grande città propose a un convento di suore di partecipare a un appalto che riguardava tutta la città per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare che le religiose facevano nel loro rione. Ora, come può essere ragionevole prescindere dal fatto che quelle suore fossero già da tempo presenti su quel territorio e pensare di importare altri soggetti da altre zone, oppure, addirittura, di spostare l’attività di quel convento, fuori dal suo raggio d’azione? È chiaro che in presenza di diverse proposte operanti in uno stesso territorio, poi occorrerà mettersi d’accordo, ma in mancanza di questa evenienza non avrebbe avuto alcun senso che la politica intervenisse a complicare un’attività già efficace di risposta ai bisogni delle persone.

Parlare di bene comune allora è parlare di sussidiarietà. La politica ultimamente deve valorizzare le esperienze che funzionano e stimarle, sostenerle, privilegiarle rispetto a soluzioni che sarebbero calate dall’alto. Far maturare la partecipazione dal basso significa infatti sostenere la maturazione personale e civile degli individui.

Mi è tornato in mente in questi giorni quando mio padre, a novant’anni, cominciò a scrivere in Comune per segnalare che la strada in cui abitava era diventata troppo pericolosa: una lunga via stretta in cui le automobili sfrecciavano ad alta velocità e per questo spesso capitavano incidenti. Un giorno andai a trovarlo e lo vidi tutto fiero alla finestra che seguiva i lavori per la costruzione di rotonde e aiuole lungo la strada. Quel gesto esprimeva il fatto che si sentisse parte attiva di un popolo.

Come un’amica assessore in un comune piemontese che mi scrive: “Un giorno mi arrivano all’orecchio le solite lamentele, le luci sul lungolago sono spente, l’amministrazione non fa nulla per ripararle, che degrado, e altre cose. Una sera, con mio marito siamo usciti e abbiamo fatto il censimento di tutti i lampioni spenti annotandoci puntualmente i numeri dei pali. Ho fatto la segnalazione all’ufficio tecnico e nel giro di qualche giorno le luci sono state riparate. Un piccolo gesto di buon senso”.

La terza dimensione importante del bene comune è che non può che implicare il compromesso, perché ci saranno sempre bisogni, interessi, punti di vista diversi da conciliare. Non si può costruire in modo divisivo, ma solo operando per una soluzione unitaria. Aver demonizzato il compromesso chiamandolo “inciucio” è, in conclusione, segno di violenza.

Alla fine, bene comune significa rinunciare a pretendere di possedere uno schema salvifico, di poter mettere tutto a posto in base a uno schema, ma passo passo facendo evolvere quello che c’è e che funziona. È un cambiamento continuo in azione secondo piccoli passi. Non sarà mai un disegno complessivo pensato a priori, ma delle instancabili approssimazioni, miglioramenti. In una parola, una politica che tenda al bene comune non può che essere riformista.