Le metafore non devono trarre in inganno. Le parole usate dal cardinal Bassetti al termine del Consiglio permanente della Cei segnano il passo di una nuova stagione nella Chiesa italiana. Mentre intellettuali e politologi si arrovellano per capire che cosa sia realmente successo nelle urne lo scorso 4 marzo, il presidente della Cei mostra di aver già metabolizzato, quasi assodato, il risultato e non si interroga su quale patente dare ai vincitori, se di adatti o di pericolosi, bensì individua nelle cause che li hanno portati al successo i sintomi da cui ripartire. 

Ed è qui che usa la metafora: povertà, disoccupazione, abbandono delle periferie, paura del diverso e violenza sulle donne assurgono a ruolo di segni di un inverno difficile da superare, non solo a livello meteorologico. Questi segni non sono tuttavia dei “particulari”, cui rispondere in modo immediato e riduttivo, bensì segnali di un disagio più profondo, quasi come se tutte le fanta-misure promesse dai partiti fossero una specie di cura palliativa rispetto alla malattia che attanaglia il nostro paese. 

La malattia, dice il Cardinale, è l’assenza di un progetto, di una vocazione: quando non si sa dove andare e chi si vuole diventare è molto difficile scegliere e fare ordine, mentre è più facile cercare facili soddisfazioni e soluzioni a buon mercato. La crisi economica ha tolto la maschera alla vera crisi del nostro tempo, la crisi vocazionale. Il disagio nel matrimonio, le fragilità psicologiche e i disordini affettivi, come pure le difficoltà sul lavoro o nel percorso professionale, raccontano di un’insicurezza esistenziale che nessuna risposta politica può risolvere. L’insicurezza di essere amati, di non valere alcunché o di non essere di nessuno è alimentata da fattori economici e sociali che rendono l’orizzonte piatto, privo del rapporto con Qualcosa che sia più grande di quel che si misura, ma che c’è. Non esiste crisi di vocazione, crisi di identità, che non sia crisi di fede, assenza di rapporto con una Presenza riconosciuta. 

È a questo livello che la Cei scende in campo: la fede si ricostruisce solo nel dialogo, nell’incontro con l’Altro: l’altro di Dio, l’altro del fratello, l’altro che vive dentro di me e che non conosco. Il dialogo è il metodo educativo del nostro tempo perché è la strada dell’incontro, della relazione, con una realtà concreta che mi chiede di andare oltre, di arrivare fino in fondo, fino all’affermazione di una Presenza per cui si possa stare di fronte a tutto senza censurare nulla, senza ritenere i problemi sempre alle spalle, ma afferrando tutto come una possibilità di crescita e di maturazione nella consapevolezza di sé e nella responsabilità verso il mondo. 

La nuova strada della Chiesa italiana, lastricata sul Vangelo, sulla Costituzione e sull’Europa, non porta con sé contenuti o nuove parole d’ordine, ma un metodo, un lavoro che è strada per tutti quelli che — nello smarrimento di questi tempi — desiderano ritornare a costruire e a sperare. La Chiesa si offre di ricucire e di riconnettere la società mettendo a disposizione, oltre ai suoi armamenti assistenziali, anche la sua grande tradizione educativa. Perché, al di fuori di ogni metafora, i vescovi italiani sanno benissimo che, se l’inverno ci ha lasciato la sua coda gelida a pervadere il tessuto sociale, l’estate — oltre che lontana — sembra sempre di più un bene lontano da raggiungere. La Cei si riposiziona dunque. E mai come ora l’invito a cercare una maggioranza che governi suona come un monito super partes, a vincitori e vinti, a non sottovalutare il bisogno radicale della gente e a non trincerarsi dietro facili rendite di posizione. Prima che il vento gelido di questi mesi si trasformi, anche in piena estate, in un’inquietante bufera.