“Io credo soltanto che tra il male e il bene è più forte il bene, bene, bene, bene, bene”, diceva una canzone di Jovanotti degli anni Novanta. Il mantra del pensiero positivo si è poi diffuso più che mai in tempi grami come questi. Empatia, grinta, responsabilità, stabilità emotiva, esperienza personale, flessibilità, creatività vanno molto di moda, anche nel mondo del lavoro. Senza dimenticare altre cose giuste come un po’ di volontariato, di generosità, di bontà per salvare il pianeta sovrappopolato, inquinato, diseguale…
Il tutto parla di un’aspirazione al bene, per fortuna, ma confusa. Infatti il pensiero positivo “passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano”, sempre secondo la canzone citata. Insomma, tutto e il suo contrario.
E’ commovente lo sforzo volontarista, ma il fatto è che per quanto si scavi nell’umano e si tiri fuori tutta la positività che contiene, non potrebbe mai bastare a soddisfare quello che si desidera. L’animo umano è un punto infiammato, un desiderio indomito e infinito. E’ un “cuore urgente”.
In poco tempo, negli ultimi mesi ho visto morire Sandra, 52 anni, moglie del mio amico Alessandro, e Francesco, un ragazzino di 14 anni, simpatico, ironico, pieno di entusiasmo per la vita. Ho assistito, come tutti, al continuo infierire sulle sofferenze della popolazione civile in Siria, al dramma di tanti disperati migranti senza patria, a carestie, guerre, sottosviluppo che decima ogni giorno migliaia di persone. Ho saputo delle stragi senza senso che avvengono in America, degli attentati dei lupi solitari dell’Isis e delle uccisioni di mogli e figli. Ho visto il dramma della disoccupazione, di chi viene lasciato a casa a 45, 50, 60 anni e non sa da dove ripartire. Sono dolorosamente colpito dal nuovo imbarbarimento della politica, dalle nuove dittature nel mondo, dalla perdita di idealità nel mondo occidentale, dall’immeschinirsi del dialogo pubblico italiano. E ognuno di noi può parlare della sofferenza quotidiana minuta, silenziosa che non va sui giornali, di depressioni e malattie di ogni tipo, di famiglie che si sfasciano, di giovani che non lavorano e non studiano e non trovano la loro strada…
Di fronte a questo “pianto antico” e sempre nuovo, può bastare il pensare positivo? A cosa serve tutta la forza di volontà di cui disponiamo se dimentichiamo che l’uomo è un essere strutturalmente mancante, che non è completo, che per essere se stesso deve rivolgersi ad Altro? Senza contare poi che l’essere umano è anche contraddittorio (faccio il male che non voglio e non faccio il bene che voglio, come disse San Paolo).
Nemmeno il credente, cattolico o no, può dire: quello che so mi mette al riparo dall’angoscia, dall’impotenza, dal fallimento.
Anche i cristiani, come tutti, non possono che guardare al venerdì santo come a un mistero. Un giorno strano in cui persino l’unico uomo che si è detto Dio ha bevuto il calice di un male che in quel momento è sembrato invincibile. E’ stato tradito e abbandonato dai suoi amici, disprezzato da tutti, ha sofferto una passione di una violenza bestiale, è morto in croce come il peggiore dei malfattori perché, come dice Carl Theodor Dreyer nel suo “Dies irae”, grande è la potenza del male.
Però poi è risorto, è stato completamente liberato dal male. Non per il dolore sofferto, ma il rapporto con il Padre a cui si è affidato completamente. Questo è il punto: non ha portato tutto da solo.
E così, ha indicato a tutti la strada per vivere, per scoprire quella “povera voce” che non pensa di salvarsi da sola, ma chiede a qualcun Altro di aiutarla ad affrontare la vita. E così non perde la speranza e vive la croce quotidiana non come l’ultima parola. Può vivere, alla fine, la sua resurrezione. Come quella che ho visto sul viso di Alessandro mentre accompagnava la moglie all’ultima ora; o come quella che ho visto in Francesco e sua mamma, misteriosamente sereni. O come quella che, inspiegabile, si vede nelle popolazioni martoriate che ricostruiscono la vita, civile e cristiana, sotto i bombardamenti non rinunciando ad aspettarsi persino il centuplo quaggiù. O ancora, nella compagnia silenziosa fatta di carità indomita che non manca mai anche nelle tragedie più grandi.