Non avevano bisogno di essere applauditi: avevano bisogno di Lui. Tutto qui. La civetteria di Gerusalemme – popolata di burattini, pachidermi e buongustai – era nota: crocifisso il Perdente, si festeggiò con una gazzarra perpetua. Se lo staccarono giù, non fu certo per amore: un morto attaccato al palo faceva fare brutta figura ai festaioli. Per questo l’hanno deposto: perché, senza più il corpo, anche la memoria andasse a ramengo. “Morto il capitano, la truppa sparirà se sono uomini d’intelligenza” s’erano detti gli avversi, il fan-club che aveva fatto della Legge un salvagente.
Capitò così: gli undici tabernacoli, con Cristo dentro, si trasformarono in divani-letto. L’altro, Giuda, decise di disfare quel tabernacolo di carne attaccandosi all’albero. Scelse, forse, l’albero sbagliato: l’albero-Maestro lo aspettava con il vitello grasso già pronto. Scelse il vitello d’oro.
Spariti tutti – come passeri dopo una fucilata – due fanno capolino sotto la Croce: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Il primo è uno di quelli che, pur membro autorevole del sinedrio, non aveva condiviso la decisione di massacrare il Re. Era discepolo di Gesù, “di nascosto, per timore dei giudei”. Porta cucito un coraggio disumano, da chiedere “a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato glielo concesse” (Gv 19,38). Accanto a lui, sbuca Nicodemo, “quello che in precedenza era andato da lui di notte” (19,39). Portò un dono a quel Maestro che gli fece ripetizione notturna su cosa significasse “rinascere”: ha una boccetta di mirra e aloe. Uomini esagerati, discepoli di un Dio esagerato che mai si vergognò di apparire tale: non concepiva l’amore senza l’esagerazione. Andarono da Lui, proprio quando l’aria era elettrizzata e la giornata pareva la meno conveniente: “Vera solitudine è sperimentare l’inutilità della memoria” (P. D’Ors).
Chi ha avuto molto, sa cosa significa perdere tutto. Non si può stare sotto la croce senza avere la tempra dell’avventuriero: “Il successo non è uno dei nomi di Dio” (M. Buber). Sotto la croce, sanno starci i due amici del crepuscolo. Due nottambuli che avevano frequentato il Cristo di nascosto. E’ chiaro, adesso, che non fu per umana vergogna che Gli andavano appresso di notte. Quando il mondo gli andava tutto dietro, stargli vicino era uno spasso. Quando il mondo, anche quello amico, Gli si volta contro, i cuori sono messi al muro. L’amicizia è nuda sotto il cielo. E’ la visione di Giuseppe e Nicodemo: nel Gesù che meno brilla, scorgono Dio brillare come mai nessuno prima aveva visto. Allenatisi a contemplare la Luce di notte, quando tutti videro una croce loro intravidero il Crocifisso. La differenza tra la croce e il Crocifisso è una presenza: si chiama Gesù, lo chiamano il Cristo, si era dato come soprannome Emmanuele (“Dio con noi”). Stavolta, per questa volta, Dio accetta di rovesciare il soprannome: “Noi con Dio. Non rimarrà qui da solo” dissero i due viaggiatori notturni.
Lì sotto incrociano Maria, femminilità insonne. Sguardo di lince, com’è delle madri, forse li aveva già adocchiati qualche notte avvicinarsi al Figlio: “Ho un sepolcro nuovo, scavato nella roccia qui vicina, Maria: te lo affitto volentieri. Era il mio più grande amico tuo Figlio!” Lo calano dalla croce, glielo depongono in braccio: in quell’attimo nacque al mondo la Pietà. Cristo-scultore scolpì il suo volto nel loro: di sabato, in un silenzio civettuoso, la speranza sta appesa nello sguardo di Lei. Di loro due. Michelangelo, invisibile, da qualche parte scarabocchiò il bozzetto. Giuseppe a Nicodemo, guardando Maria carezzarLo: “Spaventa essere piccoli come noi. Guardalo!”. Nicodemo: “Spaventa, ma allo stesso tempo emoziona. E’ Lui ad avere bisogno di noi adesso”. Disperati, ma non sconfitti: alla sua scuola erano stati educati a fallire nella maniera giusta. Per vincere l’indomani: “Una ricerca che ignora la disperazione non è vera ricerca” (P. D’Ors).
Di Sabato non c’era più nulla. Maria spiegò ai due nottambuli che, sapendo come ragionava il Figlio, quel nulla era necessario per la (ri)creazione. Turris eburnea, Maria!