Se i meteorologi non si sono sbagliati di grosso, mentre leggete questo editoriale il grande gelo di settimana scorsa dovrebbe essere sostanzialmente alle nostre spalle e il clima tornato ad incamminarsi verso il tepore primaverile. Ma mentre scrivo la morsa (come si usa dire) del gelo è ancora stretta. E induce a qualche riflessione. Tranquilli: non intendo addentrarmi nelle polemiche sul riscaldamento degli scambi ferroviari o sulla sprovvedutezza delle amministrazioni di fronte a nevicate pur annunciate; sono cose serie che vano trattate con adeguate informazioni e ampiezza di competenze (proprio quelle che mancano quando di simili argomenti si fa solo polemica a buon mercato). 

Le riflessioni, piuttosto, mi sono state suscitate dal fatto che da parecchi anni – almeno così mi par di ricordare – non pativo così tanto freddo e così a lungo; ho potuto così considerarlo più da vicino e osservare con maggior attenzione le mie reazioni. 

Mentre cammino per strada, difendermi al gelo significa stringermi addosso gli indumenti necessari: la sciarpa ben avvolta fin sopra le orecchie, il cappello schiacciato in capo e le mani, pur previdentemente guantate, sprofondate nelle tasche del cappotto. Così fasciato mi rendo conto che tendo comunque ad inarcare in avanti le spalle quasi volessi raggomitolarmi: è l’istintivo riflesso motivato dal desiderio di conservare il caldo che ho dentro, impedirgli di uscir fuori preda del vendo gelido che se lo porta via. Il gelo è minaccioso proprio perché adagio adagio tira fuori dal mio corpo le energie calde fino a ridurlo un freddo – appunto – cadavere (è purtroppo accaduto a qualche clochard nei giorni scorsi). Genialmente Dante rappresenta il fondo più cupo del suo inferno, il punto geografico più lontano dall’energia vitale, che è Dio, non come il grande falò delle vignette, ma come un tetro lago gelato, dove i dannati, gelati anch’essi, stanno immersi. 

Mi è sembrato di cogliere in tutto questo una grande verità sull’umano: possiamo fare tutto quello che vogliamo per ripararci dal freddo, moltiplicare gli indumenti, rannicchiarci su noi stessi, ma non basta; persino il sollievo di un abbraccio alla lunga è insufficiente: se il freddo prosegue implacabile, alla fine dovremo soccombere. Insomma, noi non possiamo produrre dall’interno di noi stessi il calore di cui abbiamo bisogno per vivere; dobbiamo rivolgerci ad una sorgente di calore che è altra da noi: che sia il sole fortunatamente tornato più forte del vento siberiano, che sia camino dal fuoco scoppiettante o un termosifone. Il nostro calore vitale (e con esso l’intelligenza, la capacità affettiva, la potenza creativa, la tensione ideale) si mantiene e si rinforza per una sorgente di calore esterna; e non basta – benché spesso ce ne illudiamo – una sorgente simile a noi: produce solo una breve dilazione alla vittoria del gelo. Occorre quel “caldo” che – nel luogo diametralmente opposto al lago infernale – nel paradiso dantesco fa crescere la sublime rosa dell’umanità piena, pacificata, sicura e – usiamo pure la parola più adatta, anche se a volte ci sembra una esagerazione – felice.