Non c’è motivo di negarlo: le vecchie catene sono tornate. Catene semplici e già usate: 50 anni dopo che il desiderio di liberazione è stato imposto come unico criterio (1968), è aumentata la forza di molteplici poteri. Un buon esempio è la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, un episodio di nazionalismo stantio. La cosa strana è che l’insuccesso del desiderio di liberazione serva a squalificare, come se fossero la stessa cosa, l’aspirazione a una maggiore libertà con i metodi usati per ottenerla e i risultati ottenuti. La pulsione antimoderna non fa distinzioni.

L’insistenza, il tempo e l’energia dedicati ad analizzare e svilire i tratti della cultura post-liberazione (genere, liquidità, ecc.) sono inversamente proporzionali alla capacità di salvare il desiderio di libertà che rinasce di continuo e di intraprendere nuove strade. La pulsione antimoderna, brandendo i fallimenti dell’Illuminismo e del ’68, vuole far emergere la vecchia paura del desiderio, vuole farci credere che ci sia qualcosa di pericoloso nel trasformare la libertà – la critica soggettiva, la soddisfazione, il percorso di ognuno – in criterio. La nuova paura della libertà e del soggetto è parte della crisi, del problema, non della soluzione.

Torniamo all’esempio della guerra commerciale. Se gli Stati Uniti e la Cina finissero per imporre dazi del valore di 50 o 100 miliardi di dollari si verificherebbe un disastro. Si romperebbe il fragile equilibrio che consente una forma di collaborazione tra le due principali economie del pianeta (la Cina esporta negli Usa, i quali finanziano il gigante asiatico). Siamo sull’orlo di una grande catastrofe perché buona parte degli americani e dei cinesi sono disposti a soddisfare il loro desiderio di liberazione nel nazionalismo low cost di Trump e Xi Jinping. Trump sa che il suo futuro si giocherà alle elezioni di novembre. Per questo, contro l’élite repubblicana, è disposto ad alimentare questa sostituzione delle aspirazioni esistenziali di gran parte dell’elettorato statunitense con un buon capro espiatorio. I cinesi sono i colpevoli del declino perché vendono agli americani quel che gli hanno rubato prima, assicura il karma nazionalista. 

Dall’altra parte avviene la stessa cosa. I passi compiuti da Xi Jinping per consolidarsi come il nuovo Mao sarebbero stati impossibili senza la propaganda che dal mattino alla sera parla di un Paese forte, un leader mondiale. Il vero volto del comunismo-capitalismo è anche nazionalista. Non ci sarebbe una guerra commerciale senza una manipolazione antropologica, se il nuovo potere offrisse libertà invece di bandiere.

Nessuno lo nega ormai: l’Illuminismo ha fallito. Ma come soluzione, non come aspirazione. Perché il desiderio di universalità è inestirpabile. E perché la laicità, una volta entrata nella storia, si è rivelata più conveniente di tutte le teologie politiche che confondono Stato e Chiesa. Il XXI secolo è attualmente molto religioso e le teologie politiche di confusione sono tornate con forza.

Il cinquantesimo anniversario del ’68 non ci permetterà di vedere molte vittorie sull’uomo unidimensionale. Ma ciò non toglie nulla al desiderio di autenticità di quegli studenti universitari e non che protestavano contro una tradizione ridotta a formalismo. La generazione del dopoguerra, che all’epoca era alla guida dell’Europa, non riusciva a capire cosa stava succedendo. Avevano costruito, con grandi sforzi, una nuova casa nel Vecchio Continente. I valori illuministici, salvati dopo l’orrore del totalitarismo, erano di nuovo vigenti. L’alleanza tra liberalismo, socialdemocrazia e tradizione cristiana aveva fatto nascere il luogo più comodo e prospero della storia. Cinquant’anni fa a quella generazione è stato detto che quella casa era vuota, fredda, che non c’era nessuno che ci vivesse. I valori che lo arredavano erano fredde pietre da museo. 

L’avvertimento è ancora valido. È urgente dire tutto. Il desiderio di liberazione sorse di fronte a una tradizione che aveva smesso di essere tale, mummificata in un moralismo asfissiante e con alcune istituzioni democratiche scollegate dalla base. Non possiamo ricorrere a semplici parole d’ordine, a soluzioni senza carne e sangue, a enunciati. Il desiderio continua a essere dov’era. Nel nome di cosa dobbiamo rinunciare a essere moderni?