A dar retta ai tweet dell’inquilino della Casa Bianca, la missione è compiuta. Quella di distruggere, con 107 missiloni “belli e intelligenti” autografati Trump, Macron e May, tre arsenali di armi chimiche di “quell’animale protetto da Teheran e Mosca”, all’anagrafe Bashar al Assad, presidente della Siria. Nessuna vittima, meno male. Ora gli ispettori dell’Onu verificheranno l’esistenza o meno dei presunti o distrutti arsenali. Un po’ strano: in genere prima si trova poi si distrugge, non viceversa. Boh, sarà un ossimoro. O propaganda?

Certo è che nel tempo della guerra mondiale a pezzi, colpiscono tre cose: la propaganda bellica, quasi sempre “bevuta” dall’informazione; l’afasia del movimento pacifista, forse deceduto; le divisioni del Papa, cioè la pertinenza della “diplomazia della Misericordia”.

1) La propaganda di guerra ci ha fatto credere ad armi chimiche… che non c’erano. Fu nel 2003. Per distruggere quelle armi, così disse, Bush figlio attaccò l’Iraq: la guerra durò otto anni, il raìs fu fatto fuori, ma di arsenali chimici gli ispettori Onu non trovarono nemmeno l’ombra, perché non c’erano, e tempo dopo Tony Blair confessò che era stata tutta una bufala. I’m sorry, e si autoassolse. Bush padre, d’altra parte, dodici anni prima fece fare il giro del mondo alla foto di un povero cormorano iracheno morente a causa del petrolio fuoriuscito dai pozzi fatti saltare sempre dal raìs. Saltò fuori anni dopo che il cormorano era canadese, prelevato da uno zoo, spalmato di nero bitume e messo in posa per la causa del Nuovo Ordine Mondiale. Così, tanto per ricordare.

2) Si ricordano anche i movimenti pacifisti. Sette milioni di bandiere arcobaleno in Italia contro la guerra di Bush. Adesso niente. I movimenti pacifisti non hanno saputo sopravvivere alla fine nel mondo bipolare, se non per i primi anni. In quel mondo, la causa della pace, anche sinceramente sentita, era vissuta in una logica di schieramento: con la vittima contro il carnefice, sapendo ben collocare, a priori e in maniera assoluta, senza sconti, dove sta la vittima e dove sta il carnefice. A un “basta guerra in Vietnam” corrispondeva un “Nixon boia”, e così via. Il pacifismo prevalente, si connetteva con l’anti-imperialismo di matrice comunista, in una visione ultimamente manichea del mondo. I russi non saranno buoni, ma gli americani di sicuro sono cattivi. Finita l’Urss, rimasero gli Usa deI Bush, che erano di destra e quindi cattivi e le loro guerra andavano contrastate; ma poi vennero anche gli Usa di Clinton e di Obama, che erano di sinistra e buoni, e non bellicosi perché le guerre le hanno gestite in outsourcing, lasciando che altri le facessero sul campo, come fecero quel dì coi talebani in Afganistan contro i sovietici. Soprattutto oggi il mondo è multipolare e anche un po’ caotico: il pacifista manicheo non sa che pesci pigliare e ammaina l’iride. Ora la sinistra, salvo schegge, fa finta di credere che ci siano guerre combattute per i diritti umani e le giustifica. Si intende sia la sinistra politica e sia la sinistra intellettuale. Così non si va tanto lontano.

3) Il “pacifismo” (si badi, tra virgolette) della Chiesa invece resiste perché non è di schieramento. Cioè non è astratto e ideologico. Men che meno lo è quello di papa Francesco. Come ha scritto il direttore di Civiltà cattolica padre Antonio Spadaro in un importante saggio del 2016, l’azione di Bergoglio per la pace consiste nel mostrare il valore anche politico della misericordia, e nel tentativo di innescare processi politici e diplomatici che hanno la misericordia come criterio. “Il linguaggio della politica e della diplomazia — ha detto il Papa — si lasci ispirare dalla misericordia, che nulla dà mai per perduto”. Da notare questo “nulla dà mai per perduto”. Lui stesso ha spiegato che la sua lettura del mondo si avvale di un “pensiero aperto”, “incompleto”, che non chiude mai le porte a nessuno degli attori coinvolti in crisi e conflitti, e nemmeno offre benedizioni alle armi di nessuna parte in conflitto in nome di presunte missioni di civiltà o di presunte superiorità morali. Non predefinisce torti e ragioni in maniera rigida, aprioristica e assoluta. Nemmeno nel caso mediorientale. Non gli sfugge, ha scritto sempre padre Spadaro, che “c’è una lotta di potere per la supremazia regionale”. Fa appello, a più riprese e fino a ieri, a tutte le potenze coinvolte perché “abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare”. L’espressione “vana pretesa” sembra riecheggiare il monito — profetico — di Benedetto XV sull'”inutile strage”. Perciò “Mai più la guerra! Mai più la guerra!”, come invocò nel 2013. “Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza”. Con gli Stati la diplomazia della Santa Sede mantiene rapporti multilaterali, diretti e non paralizzati dalla logica di alleanze precostituite. Nel caso mediorientale ha sollecitato sforzi di dialogo che non escludessero né Putin né l’Iran, il cui presidente Rouhani ha ricevuto in Udienza in Vaticano.

Papa Francesco nella Misericordia ci crede. Crede nell’efficacia del comandamento evangelico di amare i propri nemici, ha una speranza certa che la riconciliazione è possibile. Getta ponti, compie gesti simbolici — come la preghiera con Abu Mazen e Peres, il giro per le vie di Bangui in papamobile insieme all’imam — per aprire processi. In Centrafrica, in Corea, a Cuba. La diplomazia della misericordia non è astratta. Astratto perché ideologico era un certo prevalente pacifismo. Oggi impraticabile. La diplomazia della misericordia, invece, è praticabile dai grandi ma anche da chiunque, come educazione personale e di popolo alla tolleranza e all’accettazione dell’altro nella vita familiare, sociale, economica e politica.