Se l’Italia investe sullo sviluppo sostenibile

L'ultimo saggio di Enrico Giovannini invita a guardare all'Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile nel mezzo della crisi politico-economica italiana. GIANNI CREDIT

L”utopia sostenibile”, scrive Enrico Giovannini nel suo ultimo libro, non è un “libro dei sogni”. E’ un modo di guardare alla realtà, “all’evidenza dell’insostenibilità di un modello di sviluppo e ai presupposto teorici di un approccio alternativo”. Il saggio dell’ex ministro del Lavoro ed ex presidente dell’Istat – oggi alla guida dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile – può raggiunge al momento solo i parlamentari neo-eletti, non ancora i ministri di un’Italia in questo periodo “non sostenibile” anche nella governance. La sua analisi sul disalinneamento del Sistema-Italia rispetto agli obiettivi dell’Agenda Onu 2030, tuttavia, non potrà non essere sul tavolo di ogni nuovo esecutivo. Solo per 44 fra i 169 target operativi all’Italia viene dato oggi “semaforo verde”, mentre per il Grande Obiettivo “incentivare una crescita duratura e la piena occupazione” Roma incassa oggi 6 rossi, 2 gialli e 3 soli verdi.

Richiamare l’Agenda 2030 e dei suoi 17 Grandi Obiettivi – dalla lotta alla povertà alla tutela dell’ambiente, dal miglioramento dell’education al superamento delle diseguaglianze fra macro-aree del mondo – non è “parlar d’altro” in Italia18: un Paese, scrive Giovannini, dove “non si possono certo vincere le campagne elettorali spaventando gli elettori con scenari catastrofici senza indicare possibili soluzioni, ma è altrettanto evidente che vincere una campagna elettorale con promesse mirabolanti basate su vecchi paradigmi non seguite da un significativo e duraturo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini renderebbe non solo difficile anche la tenuta della società democratica”.

La critica al “vecchio paradigma” è d’altronde netta: neppure una crescita del Pil al 2% – soprattutto se basata su una digitalizzazione spinta della produzione – può riassorbire disoccupazione e livelli di povertà mentre politiche della competitività manifatturiera basate meccanicamente sul taglio del costo del lavoro creerebbe una contrazione di potere d’acquisto e quindi del benessere controproducente sul piano strettamente economico e su quello ampiamente sociale. Non è per caso che Giovannini citi la “sfiducia” come la risorsa negativa meno tangibile ma anche più insidiosa: il cambio di paradigma necessario si preannuncia quindi profondamente culturale, all’opposto dei modelli tecnocratici. E se l’economista propone l’inserimento della sostenibilità fra le categorie innovative della Costituzione – con lo stesso sforzo creativo maturato nel 2001 con l’introduzione del principio di sussidiarietà – è evidente rilancia la generazione di valore aggiunto nelle dimensioni concrete della sostenibilità. Investire nella sostenibilità – a cominciare dall’education – può rivelarsi una raccomandazione utile a un mondo politico fratturato fra chi vorrebbe “investire” soltanto nella flat tax al Nord oppure nel reddito di cittadinanza al Sud.

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