Sono ben consapevole che ci troviamo nell’aria festosa del lunedì dell’Angelo, che prolunga la solennità di ieri, quasi che una sola giornata non sia sufficiente a contenere tutta la gioia e voglia di festeggiare prodotte dall’evento di Pasqua. D’altro canto la felicità della resurrezione non è l’happy end di una favola che cancella i dolori e le trepidazioni che l’hanno preceduto: perfino nella messa di Pasqua siamo portati ancora una volta nel cenacolo e si rivive il sacrificio del venerdì santo. Mi sia dunque concesso di rimettere un po’ indietro le lancette dell’orologio.

Proprio all’inizio della Settimana Santa i giornali hanno dato conto di recenti inchieste sociologiche secondo le quali da noi il cristianesimo è “prossimo al punto di default: il numero dei cristiani nella maggior parte dei Paesi europei è stato superato da chi si professa non credente”. È una constatazione che possiamo fare personalmente anche senza appellarci alle analisi dei sociologi. Per esempio io il mercoledì santo, verso l’una, mi sono trovato ad attraversare piazza del Duomo, a Milano. Era piena di impiegati del centro in pausa pranzo che si godevano il pallido solicello di marzo e le due magnifiche magnolie fiorite dietro l’abside dell’immensa foresta di statue marmoree che è la cattedrale della mia città. E poi c’erano i numerosi turisti indaffarati a farsi selfie, ad accodarsi alle casse per i biglietti, a consultare guide e mappe. È chiaro che non ho lo speciale dono di leggere dentro i cuori e le intelligenze degli altri, ma non era difficile capire che per quasi tutti trovarsi nell’unico mercoledì di tutto l’anno che si chiama “santo” era o ignoto o irrilevante.

Nella tradizione liturgica è il giorno “dedicato” (se si può usare questa parola) al tradimento di Giuda; i vangeli ne raccontano il momento culminante in quattro modi leggermente diversi. Giovanni dice semplicemente che Giuda è andato nell’orto degli ulivi con le guardie del tempio: nessun gesto o dialogo tra lui e il maestro. Marco aggiunge il particolare del bacio-segnale di riconoscimento al quale, però, Gesù non risponde niente. Matteo e Luca, invece, ricordano la risposta di Cristo al saluto del traditore; di essa mi interessa qui mettere il rilievo l’inizio, vale a dire come Gesù ha chiamato il suo interlocutore: in Matteo è “amico” e in Luca il nome proprio di chi gli sta davanti: “Giuda”.

Ecco, vedendo tutta quella gente ignara in piazza del Duomo, quella gente che nelle statistiche farebbe pendere la bilancia dalla parte della miscredenza, ho immaginato (non certo perché li giudichi traditori, ma per analogia) che Gesù a ciascuno di loro dicesse: John, amico; Fuyuko, amica; Felipe, Denise, Paolo, Anna, Günter, Natasha, amici. Lui che non è stato ostacolato dal tradimento di un discepolo non può esserlo dall’ignoranza di chi non lo conosce o dalla distrazione di chi se lo ricorda poco più che come una favola. Occorrono – è chiaro –voci di cui Gesù si possa servire per il suo appello perché provenienti da uomini che lo riconoscono per quello che è: il Salvatore. Ogni battezzato è chiamato a questo compito dal momento in cui è stato per la prima volta chiamato col suo nome: il battesimo. Allora egli disse: “Pierluigi, amico”, coinvolgendomi nelle sua opera di chiamare tutti.

Piccolissima postilla personale: riflettendo su questo, ho pensato che sia giunto il momento di abbandonare il pur comodo diminutivo e di firmare i miei articoli, come faccio per la prima volta qui, col mio vero nome, col nome di battesimo.