Il primo uomo, nella Scrittura, fu un agricoltore. D’allora, finora, l’agricoltura è mestiere sacro: la nobiltà riposa sulla terra. Una vigna che si snoda sul dorso di una collina, tra tutti i panorami possibili, è uno spettacolo della natura. La vigna, saccheggiata dalla vendemmia, appare ancora più intrigante: “Amo la stanca stagione che ha già vendemmiato — scrive Vincenzo Cardarelli —. Niente più mi somiglia, nulla più mi consola, di quest’aria che odora di mosto e di vino, di questo vecchio sole ottobrino che splende sulle vigne saccheggiate”. 

Una vigna piena di grappoli maturi dev’essere parsa agli occhi del Cristo come l’immagine più prosperosa se un giorno la scelse come stemma della cooperativa fondata con il Padre: “Io sono la vita vera e il padre mio è l’agricoltore“. Un’immagine agricola ch’era sotto gli occhi di tutti, per un Regno di Dio che doveva mostrarsi manifesto sotto lo sguardo di tutti. Per parlare di Sé, dunque, Cristo usò parole alla portata: agricole, prosperose. Parole incinte di un parto scandaloso: Dio si è messo in cooperativa con l’uomo, è diventato suo socio in affari, la salvezza si è mostrata partnership inaspettata, ancor più difficile da credersi che da farsi.

Tra filari di viti e campi da arare, Cristo gettò la semente della primavera: non è triste morire, è triste farlo senza aver vissuto. Questo, sotto-sotto, fece capire parlando di tagli e potature. “Chi di marzo non pota la vigna perderà la potatura e la vendemmia” era solito dire il nonno nella stagione morta. Gli rispondeva il suo socio in affari: “Chi pota bene vendemmia meglio”. Ciò che fiutai quand’ero bambino — frequentando gente armata di forbice e spaghi, attrezzata a lavorare la terra — fu che il potare era gesto di premura, di cura, (viti)coltura. Lo collegai al campo semantico dei verbi artisti: di scultore, scalpellino, poeta. Il superfluo va tolto perché si sprigioni l’essenziale. Tutto torna: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto“. Il soggetto è il Padre, che m’immagino seduto sul muretto della vigna, mentre la guarda perché Lo (ri)guarda: un Dio-innamorato, un ragazzino sul muretto della piazza a gustarsi lo spettacolo di una bellezza fuggitiva, che è sul punto di fargli battere il cuore. Tagliare e potare: i due estremi dell’arte amatoria di Dio. “Tagliare” è verbo di immondizia: taglio, butto, brucia. “Potare” è verbo di oreficeria: affinare, rilanciare, scommettere. Taglio per gettare: “Lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano“. Poto per ingigantire: “Lo pota perché porti più frutto“. Più che un’aggiunta, la salvezza è una sottrazione. Dio ama così.

Alla vita non va aggiunto nulla: “Se ci aggiungi dell’altro, la impoverisci” dice il Dio vestito da agricoltore. Amarla sarà correggerla, potarla, tenerla in forma per corteggiarla. La vita della vite è la potatura, esattamente ciò che l’uomo sbadato chiamerebbe morte: “Metti giù la forbice che le fai del male!” farfuglia Satana. Il sogno di lui è una vigna secca, sterile, uva acida. “Prendi la forbice e potala” è la risposta del vignaiolo alle rappresaglie nemiche. La vigna, agli inizi d’agosto, aprirà bocca per rispondere alla cura ricevuta: grappoli, profumo di mosto, buon vino. La potatura, che è ferita, ha fruttato: nessuna correzione, al momento, è cagione di gioia. Dio, però, corregge solamente chi ama: investe sul tempo, ha sguardi lunghi, tocchi amanti: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto (Gv 15,1-8). “Rimanere” è verbo dinamico, è sangue che scorre nelle vene. Pare logico, a veder potare Cristo, che perderLo è già perdersi, essersi perduti: aver mancato l’appuntamento con la bellezza, la salvezza. Perché c’è qualcosa di più triste di non aver mai avuto una chance: è avercela avuta e non avere saputo coglierla. E’ Dio-modesto: “Senza di me non potete far nulla“. Detto così, col rischio d’apparire strafottente. Col guadagno di ricordare che solo chi ha ricevuto molto si spaventa all’idea di perdere tutto.