Come è noto, per chi vive negli Stati Uniti, un elemento decisivo nella scelta di un impiego è la copertura assicurativa sanitaria, quella che il datore di lavoro è disposto a pagare. Quali spese mediche ci si può permettere e come farvi fronte è un tema di preoccupazione costante per le famiglie americane.
A differenza che in Europa, infatti, l’accesso alle cure non è garantito a tutti a prescindere dal reddito, ma avviene tramite assicurazione o avendo a disposizione ingenti somme di denaro. Nei casi di emergenza tutti ricevono prestazioni mediche essenziali, ma chi non è ricco e non è assicurato ha di solito tempi d’attesa più lunghi e, comunque, cure ridotte al minimo.
Ora, con tutte le differenze del caso, questa è la situazione che potrebbe prospettarsi anche da noi se dovessero essere introdotte misure quali il reddito di cittadinanza o soluzioni analoghe. Nel dibattito pre-elettorale di questi mesi si è parlato molto della mancanza di chiarezza che promesse come queste portavano con sé riguardo alle coperture finanziarie.
E, anzi, il fatto di averle indicate come “promesse” è già fuorviante. Quello di cui non si è parlato abbastanza, e in modo sufficientemente chiaro, è il fatto che si tratta di misure che mettono soldi in tasca ai più poveri, ma tolgono nello stesso tempo molto di più in termini di welfare, cioè di servizi sanitari, assistenziali, educativi. Vediamo perché.
I rappresentanti del M5s, che hanno messo in campo l’ipotesi del contributo più consistente, parlano di coperture di 20 miliardi recuperabili con tagli alla spesa pubblica della più svariata natura: nella pubblica amministrazione, nelle indennità dei parlamentari, nelle pensioni d’oro, nei finanziamenti all’editoria e ai partiti; prospettano, poi, la cancellazione delle detrazioni per i redditi sopra i 90mila euro; l’aumento delle tasse per il gioco d’azzardo, per le banche e le assicurazioni; l’abolizione di enti inutili; il divieto di cumulo pensionistico e la non cumulabilità dei redditi.
Tuttavia, ammesso e non concesso che tali sacrosanti tagli siano ottenibili nel breve periodo, se la matematica non è un’opinione, e se è vero come dice Eurostat che i poveri in Italia nel 2016 sono saliti a più di 10 milioni, il reddito mensile medio assicurato a ogni cittadino povero sarebbe di circa 160 euro, infinitamente meno dei 1000 euro di “dignità” promessi da Berlusconi, dei 780 del M5s, e più vicino ai 187 del Rei (reddito di inclusione) appena entrato in vigore.
E allora, se è impossibile aumentare la spesa pubblica non solo perché l’Europa ce lo impedirebbe, ma perché il costo dei titoli pubblici destinati a finanziarlo crescerebbe in modo spropositato, e se aumentare le tasse ai ricchi (con una patrimoniale, ad esempio) potrebbe voler dire fuga di capitali, come finanziare questa manovra?
Se non si mette a tema lo sviluppo, c’è il rischio di veder tagliare progressivamente welfare, istruzione, servizi, come del resto sta già accadendo dall’inizio della crisi. Che cosa dire, poi, degli 8 miliardi sottratti in diversa forma alle famiglie negli ultimi anni (dato riportato da Luigi Campiglio), dei tagli di fondi agli enti locali che si sono tradotti in minor qualità e quantità di servizi socio-assistenziali erogati dai Comuni, dei tagli alla sanità e dell’introduzione dei super-ticket anche in regioni virtuose come la Lombardia? Per non parlare delle risorse insufficienti per la scuola, per la formazione, per l’istruzione universitaria. Qualcuno ha messo in luce l’origine teorica di questa posizione nelle teorie ultraliberiste di Milton Friedman. Il reddito di cittadinanza, che si richiama alla proposta dell’economista americano della tassazione negativa, lo si voglia o no, si tradurrebbe per noi in una progressiva diminuzione del welfare universalistico di tipo europeo.
I ricchi si pagano da soli dei servizi privati; ai poveri, invece di servizi, si dà un sussidio. Ma è facile mostrare come siano proprio i poveri a perderci: perché la cifra erogata in termini monetari non si avvicina neanche lontanamente al valore procapite e alla buona qualità di sanità, assistenza, formazione e istruzione. Vale a dire, si offre l’illusione di dare soldi alla gente, ma gliene si toglie molto più dall’altra.
È certamente necessario mettere in atto misure di contrasto diretto contro la povertà, ma il problema è di riflettere bene prima di rinunciare a un welfare universalistico, basato su un partenariato tra pubblico e non profit di qualità. Nello stesso tempo, colpisce il fatto che si discuta solo di come redistribuire le risorse e si dedichi così poca parte della discussione a come si possa di nuovo tornare a crescere.
In un mondo globalizzato, in cui altri Paesi un tempo sottosviluppati competono con noi, l’unico modo per garantirci un livello di vita adeguato e lottare contro la povertà, è creare nuovo sviluppo. Per farlo occorrono investimenti pubblici e privati. Se si vogliono sforare i limiti imposti dai parametri europei, è bene farlo innanzitutto per realizzare investimenti destinati alla crescita e allo sviluppo. Così avremo anche più risorse da redistribuire. Comunque, tertium non datur.