Sfogliando qua e là tra le notizie di questi giorni. Ancora una ragazza che si toglie la vita perché si sente una merda a causa di chili in più. Ancora un genitore che si scaglia come un grizzly contro il povero insegnante reo di richiamo alla figlia. Ancora dati Istat sull’occupazione, solito balletto di zero virgola in più o in meno con moderato ottimismo d’ordinanza, senza far troppo caso al fatto che i giovani sono sempre più esclusi dal lavoro: 32,8 per cento più gli inattivi, che non figurano tra i disoccupati perché hanno rinunciato a cercare un impiego. Ma sempre senza impiego e senza reddito sono. I dati sugli ultimi 20 anni sono micidiali, altro che zero virgola: nel 1998 erano 6,15 milioni i giovani occupati di età compresa fra 25 e 34 anni, nel 2008 erano 5,5 milioni, adesso 4 milioni.
E, sfogliando le pagine precedenti: Di Maio che titilla il Pd con un ramoscello d’ulivo dopo averne detto peste e corna, e dopo aver invano titillato Salvini al grido di “destra e sinistra per me pari sono”. La rappresentazione ad usum plebis è di uno gentile nel suo bel vestito blu ma inflessibile sul valore non negoziabile, cioè la poltrona di Palazzo Chigi. Quella che ci sembra di vedere, invece, è al momento una specie di partita a tri sett ciapa no (tressette a non prendere), o un esercizio di surplace, alla maniera del mitico pistard Antonio Maspes, della serie “vai avanti tu che dopo ti sistemo io”.
Già, ma i famosi contenuti, i programmi concreti che interessano alla ggente? Boh. Chissà cosa si dicono, vincitori (e vinti), nei conciliaboli fatti con il pallottoliere conta-seggi. Chissà se, passato il delirio delle sparate elettoralistiche, vincitori (e vinti) stanno ritrovando un po’ di sensata preoccupazione per il bene comune e il destino dell’italica gente (per questo ti preghiamo, ascoltaci o Signore). E cioè, in particolare, una sensata preoccupazione per il destino delle giovani generazioni, che è questione chiave e niente affatto marginale o “negoziabile”. A meno di rassegnarsi a un paese di “vecchi”, che lavorano — magari di malavoglia e sacramentando — perché non li lasciano andare in pensione, e di giovani che non hanno strada. A un paese in cui vanno a ramengo snodi educativi che aiutino nei ragazzi l’autocoscienza del proprio valore di persona indipendentemente da performances e apparenze e che tutelino il patto educativo nella scuola il quale soltanto assicura il cammino della conoscenza come introduzione alla realtà e apertura al mondo.
Sul punto del valore della persona, ha scritto Michela Marzano riferendosi al caso della ragazza suicida per il sovrappeso: “Il valore di ognuno di noi è indipendente dall’apparire o dal fare; il valore di ciascuno c’è e c’è sempre; è inerente al fatto di essere una persona e di possedere quindi una dignità. Ma se nessuno ce lo insegna, ce lo fa capire, ce lo comunica o ce lo trasmette, come facciamo a saperlo?” (Repubblica, 6 aprile, pag. 1+30).
Sull’ennesima aggressione di un genitore a un insegnante, Massimo Recalcati ha denunciato, su la Repubblica di ieri, appunto la rottura del patto educativo tra famiglie e insegnanti, e il fatto che questi ultimi sono sempre più “isolati e misconosciuti da uno Stato che non valorizza economicamente il loro lavoro”. Ciò è paradossale, perché “nel nostro tempo la scuola è il luogo di resistenza all’incuria e alla logica produttivistica che ispira l’iper-edonismo contemporaneo. Se c’è un luogo che andrebbe custodito e difeso con tutta l’attenzione necessaria, è il luogo della scuola… Dovremmo sempre ricordare che ogni rinascita collettiva inizia dalla scuola e dalla sua funzione. Quale? Quelle di introdurre i nostri figli alla dimensione generativa della cultura”.
E’ evidente che questi problemi afferiscono innanzitutto alla dimensione culturale e di mentalità degli attori coinvolti. Tuttavia un’aspirante leadership politica che voglia avere una visione costruttiva e una strategia seria per il futuro del Paese non può non metterli ai primi posti dell’agenda, degli erigendi accordi programmatici o, come piace dire adesso, dei compilandi “contratti” di governo. Toccherà limare non poco il tutto-subito adolescenziale dei redditi di cittadinanza a gogò, delle tasse decimate a gogò, delle Fornero abolite con un colpo di spugna: un buon leader non si limita a blandire il popolo prendendolo in giro: almeno qualche volta gli dice la verità e lo orienta verso itinerari percorribili e fecondi.
Prima di tutto l’Italia ha bisogno di sviluppo, se vuole rappezzare i debiti e salvare la ghirba, compreso un decente welfare. Lo sviluppo chiede investimenti, innovazione, infrastrutture, capitale umano, passione per la conoscenza, gusto del lavoro, percorsi di formazione e di specializzazione idonei. E’ urgente supportare e strumentare adeguatamente tutto ciò.
Su queste priorità è auspicabile che chi si candida a governare, fra un giro di tressette, un surplace e un pallottoliere, se c’è, batta un colpo.